di P.C. de Marivaux
traduzione e regia Andrée Ruth Shammah
con Cesare Ferrario, Gianni Mantesi, Valeria d’Obici, Tatiana Winteler, Giuliana De Sio, Giorgio Melazzi, Flavio Bonacci
scene e costumi Gianmaurizio Fercioni
musiche Fiorenzo Carpi
colonna sonora Franco Sgrignoli
riproposto in versione itinerante nell’estate 1979 ai Chiostri dell’Umanitaria
con Remo Girone, Gianni Mantesi, Laura Tanziani, Martina Carpi, Emilio Bonucci, Giorgio Melazzi, Maria Elena Viani, Colette Shammah
Questa è un’impresa: mettere in scena Marivaux in Italia, – scriveva alcuni anni fa, presentando la sua edizione della Finta serva Patrice Chéreau – In Francia è un classico, il che significa che periodicamente ci si sforza di conferirgli quella flagrante inefficacia che si trova in questo genere di testo. In Italia non è praticamente mai stato recitato e agli italiani dice pochissimo: a torto lo paragonano a Goldoni o, nel migliore dei casi, lo relegano tra i “petits maitres” del XVIII secolo.
E – si potrebbe aggiungere – lo sfuggono al punto che manca perfino uno studio critico elementare, le traduzioni sono scarsissime e insoddisfacenti, nessuno – uomo di teatro o di lettere, pensatore o creatore – ha avuto il desiderio o l’ardire di confrontarsi realmente con questo autore.
Partendo da questo niente, ci siamo avvicinati a quella che molti considerano la commedia più rappresentativa di Marivaux, una di quelle che lui stesso preferiva perché in essa ha spinto più a fondo la sua rappresentazione del mondo. […] Un’opera che non offre appigli al di fuori dell’universo dell’autore e che ci ha imposto un doppio problema: quello di fare spettacolo e quello di fare i conti con un’idea di teatro inconsueta ma precisa. E che ha posto me nella doppia necessità di essere umile e cauta davanti alla complessità dei problemi e nello stesso tempo presuntuosa e spavalda perché solo assumendo la totalità dell’impresa, avrei evitato il rischio di rimanere a metà strada.
La mia traduzione e regia de La Doppia Incostanza è dunque soprattutto la ricerca in laboratorio, la verifica in pubblico, di un’ipotesi di teatro, nella drammaturgia così come nello spirito. È la risposta (posso dire: appassionata?) di una che fa teatro, alla sollecitazione di un autore in cui pare di riconoscersi e che perciò si rende pressante e irrinunciabile. […] Si sceglie un autore anche perché sembra offrire la possibilità di portare più a fondo certe costanti inseguite per tutti gli spettacoli fatti precedentemente. Rileggendo le note che ho scritto in presentazione degli spettacoli in cui più mi riconosco, dall’Ambleto a La Congiura dei sentimenti all’Edipus, trovo le stesse cose che vorrei dire ora per questo spettacolo. La freschezza, la forza poetica, l’originalità, la parola che assume e riassume in sé l’avvenimento del gesto, lo spettacolo come scelta di semplicità, la regia come rinuncia all’esteriorità, all’esibizione di una fantasia fuori dalle cose, che le divora. In più qui ho cercato di rappresentare il candore di un mondo di giovani che si riconoscono e si trasformano.
– Andrée Ruth Shammah