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Cantico di mezzogiorno

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Cantico di mezzogiorno

Note di regia

Un testo “futuro”

Di Partage de Midi esistono tre versioni: quella del 1905 “La premiere version” quella del 1948 “Version pour la scene” e quella pubblicata nel 1949 “Nouvelle version”.
Fino al 1948 Claudel aveva vietato qualsiasi rappresentazione di Partage. La sua resistenza cede all’insistenza di J. L. Barrault e nel 1948, spinto in parte da esigenze tecniche in parte dal desiderio di riprendere in mano la sua opera prepara una seconda versione, quella appunto per la scena. Le repliche rinforzano in lui il desiderio di comporre una versione interamente nuova del suo dramma.
Del Cantico di Mesa e della Scena Finale esistono inoltre una serie infinita di varianti e appunti e correzioni che fanno capire il travaglio del poeta e la difficoltà per lui di dare un significato definitivo e diciamo “positivo” del suo dramma. Le sue lettere a Barrault del  ‘48 sono in questo senso illuminanti:

(…) Avete completamente ragione a non accettare il mio ultimo testo. Io stesso non ne ero soddisfatto. (…) Le circostanze una volta di più, nel momento in cui riprendo in mano questo dramma oscuro, mi hanno costretto a rivalutarne il senso e a farne emergere una nuova conclusione. Non è quella della prima versione né esattamente quella della seconda, ma è quella che sembra imporsi ai miei occhi in modo evidente. Bisogna che lo spettatore se ne vada, non turbato, ma soddisfatto e che per un simile dramma la conclusione sia insieme semplice e sublime. Credo di averla trovata finalmente. (…) “e ancora” (…) ll testo che mi avete, senza dubbio in modo provvidenziale imposto, ha preso su di me una importanza enorme. Non è passato un solo giorno in cui io non vi abbia meditato sopra. La sua rappresentazione avrà una importanza che mi permetterei di chiamare “storica”. Una grande opera. Si tratta di tutta la mia vita di cui, mi e accaduto, di cercare di capirne il senso. Si tratta di qualcosa che va ben oltre la letteratura. (…)” E in una lettera successiva “(…) La versione attuale di “Partage de Midi” è l’opera di una maturazione mentale che si prolunga da quarant’anni. Non ci si deve stupire se il suo significato ultimo si sia imposto alla mia mente dopo molti tentennamenti. Si trattava di trovare la soluzione di un problema arduo. (…)

Quella soluzione Claudel non la trovò mai.
Qual è il “vero” Partage de Midi? Quale delle tre versioni si può considerare l’originale, il risultato poetico definitivo? Tutte e tre, ovviamente, in epoche diverse.
Nessuna delle tre, perché il Partage fu un lavoro mai risolto.
Al momento della messa in scena si fanno i conti con questo problema. Più lirica, lacerante, vicina alla biografia la prima; compromesso per l’andata in scena, con varianti tecniche e una più accentuata nota di crudeltà la seconda; completamente rinnovata nella tensione verso la parabola la terza, ma anche pesante e involgarita…
Scegliere una delle tre versioni, accettandone l’incompiutezza? O inseguirne una quarta — che le contenga tutte e tre — proseguendo il travaglio di Claudel verso una definizione?
La versione che noi abbiamo scelto è stata essenzialmente la prima, quella scritta di getto nel 1905 e mai finora rappresentata. La più ricca e contraddittoria. Ma, fatta questa scelta di base, è stato comunque necessario percorrere continuamente le altre stesure per illuminare della luce migliore le diverse scelte che proprio la prima ci stimolava a portare sulla scena. Utilizzare per esempio quanto di più nero esistesse nella seconda e terza per dare spessore sinistro al cimitero del secondo atto. Oppure risolvere il problema del finale, di cui esistono non tre, ma sei stesure tra originali e varianti (tanto da rendere quasi necessario riconoscere che il Partage è una grande opera incompiuta).
Insomma affrontare oggi il Partage significa trovarsi di fronte a un vasto materiale poetico che non ha ancora trovato la sua dimensione definitiva. Non resta che proseguire verso il miraggio di una quarta versione. Quella che Claudel non ha scritto e che, ci auguriamo, gli sarebbe piaciuta.

Nell’ardua impresa della traduzione, Giovanni Raboni, poeta sottomesso a poeta, si è fatto sensibilissimo mediatore, mai stravolgendola verso effetti non suoi. Quella parola poi, che l’interpretazione e la regia della Shammah hanno fedelmente registrato in un allestimento spoglio di ogni tentazione spettacolare ma limpido, scorrevole, meditato. Impaginato con grande pudore entro un impianto scenografico di segno simbolico dovuto alla fantasia dell’architetto Ettore Sottsass.

– Domenico Rigotti, Avvenire


UN ARCHITETTO A TEATRO
Per realizzare le scene e i costumi di Cantico di Mezzogiorno si è scomodato un personaggio come Ettore Sottsass. Settant’anni, architetto di fama internazionale, figlio di architetto, creatore del gruppo Memphis (che disegna qualunque cosa, dagli orologi, ai vestiti, alle navi, con uno stile post-moderno). Sottsass frequenta l’università a Torino dove conosce pittori come Casorati, Paolacci, Chessa e architetti come Cuzzi, Pagano e Pogaschming.
Cresciuto in mezzo ai tavoli pieni di carta e disegni, non ha mai avuto dubbi sul suo futuro di progettista. Nel ’48 Sottsass sposa la scrittrice Fernanda Pivano: la sua attività, all’epoca, consiste nel realizzare copertine per la Einaudi o etichette per la Carpano. Nel ’56 vola in America e al suo ritorno gli viene affidato l’incarico di allestire la hall della Triennale. La vera svolta avviene dall’incontro con Adriano Olivetti per cui Sottsass lavorerà come designer nella divisone elettronica. Da lì il decollo verso un’attività internazionale, e la consacrazione alla Blun Helman Gallery di New York che espone i suoi oggetti.

– Roberto Pallavicino, Corriere della Sera

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1987 - 1988 CartelloneTournée
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