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La vita, il sogno

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La vita, il sogno

Note di regia di Andrée Ruth Shammah dal programma di sala

A punti fermi

Si entra in sala. Uno spazio semplice, ma che vorrei caldo, umano: la terra, i mattoni, le poltrone per il pubblico. Gli spettatori intorno e dentro l’azione scenica. Per scrutare posizioni, volumi, prospettive insolite (angolazioni dell’anima?). Per essere scrutati a loro volta…E sulla terra e dentro ai mattoni, a contrasto, un grande ring di luci, che salirà e scenderà durante lo spettacolo per darci nello spazio non realistico le atmosfere necessarie: i sotterranei della torre, gli spalti del castello, il campo di battaglia. La crudezza del metallo…Gli Sforza per parlare di noi oggi, a Milano. Per dar corpo a una favola (i costumi in un tempo fuori dal tempo, il castello di sabbia, la piccola torre) che vuole raccontare come si può imparare a superare l’insensatezza del vivere (forse siamo tutti in catene, obbligati a vivere sotto terra — nella torre — da coloro che vengono turbati dalle nostre diversità…) o come si arriva al bene inteso come necessità (è incredibile ma si sente davvero in questa parabola nascere il bene non come sforzo della volontà, ma come sviluppo naturale di un’esperienza), o ancora come si può provare ad agire nel giusto. Guardarsi dentro, non farsi portare, ma aprire gli occhi… Guardare con occhi diversi… E si torna alla scelta di far sedere il pubblico ai quattro lati dell’azione. La fatica terribile che questa scelta ha comportato per il mio lavoro. Ripensare al concetto vicino/lontano — da chi e perché? Come e quando ci si specchia? In chi? – diventa un incubo, ma volevo mettermi in gioco, sventrare le abitudini degli attori, chiamare in causa lo spettatore e in qualche modo responsabilizzarIo, responsabilizzarci… Questi alcuni tra i punti fermi sui quali ho costruito lo spettacolo, nella convinzione di dare al testo di Franco Loi non so se lo spazio direttamente conseguente alla sua scrittura (che certamente è più intimista e raccolta) ma una pagina con scritte forti e chiare per farne vibrare le potenzialità teatrali. E qui debbo ricordare quanto ci sia mancato e mi manchi Giovanni Crippa. La lingua di Loi aveva già trovato in lui l’interprete d’eIezione con L’angel e anche per questa trascrizione avevamo pensato a lui, che c’era fin dall’inizio e che per quaranta giorni ha accompagnato il mio lavoro, costituendone il punto di riferimento continuo. Così come sento il dovere di ringraziare Loi per l’assoluta e meravigliosa fiducia che mi ha regalato, la libertà con cui mi ha lasciato tagliare il suo testo (certo non I’ho fatto con leggerezza ma anzi soffrendo per ogni concetto elaborato e sottile che però mi sembrava sacrificabile per l’armonia dell’insieme) la disponibilità totale ad accettare suggerimenti, proposte di cambiamento, nuovi monologhi o nuovi raccordi, insomma per il modo in cui mi è stato vicino.

Grazie Franco, ma il teatro è crudele, come è stato crudele con Giovanni.

Lo spettacolo è fra i più felicemente costruiti dalla Shammah, con l’enorme spazio vuoto della sala trasformato in vasta arena sabbiosa, mutevole landa per gli articolati movimenti degli attori, col pubblico raccolto ai quattro lati e dei percussionisti arrampicati a sovrastare la scena, che eseguono il loro accompagnamento al vivo.

–  Renato Palazzi, Il Sole 24 Ore


Con efficacia Andrée Ruth Shammah trova l’immagine per restituirci lo spaesamento del teatro sventrato con gli spettatori posti su quattro lati mentre nel centro, sulla sabbia, i personaggi combattono la loro battaglia di parole come su di un ring.

– Maria Grazia Gregori, L’Unità


Andrée Ruth Shammah mette in scena uno spettacolo fertile d’invenzioni e con dentro una sua bella anima naif., piano di ritmo e raccontato come una fiaba. Forse tra i più felici ideati dalla regista milanese.

– Domenico Rigotti, Avvenire