Uno stupido maestro di stupidi bambini
di Eleonora Castagnini
Una sedia, un cappello e la Bibbia: questi pochi e semplici oggetti occupano lo spazio scenico di Giobbe. Storia di un uomo semplice, una trasposizione teatrale tratta dall’omonimo romanzo scritto da Joseph Roth nel 1930, portata in scena da Francesco Niccolini (con la consulenza letteraria e storica di Jacopo Manna). Questi tre elementi, nella Sala Treno Blu, non possono che creare un’intimità e una vicinanza massima tra spettatore e attore: su quella sedia, si trova Roberto Anglisani, eccellente nel dare voce ai diversi personaggi che compongono la famiglia Singer.
Anglisani racconta al pubblico la vita di Mendel Singer, un ebreo russo che insegna la bibbia ai bambini del paese nella sua casa piccola e modesta per riuscire a portare a casa trenta rubli a settimana, cercando di far fare una vita dignitosa a sua moglie Deborah e ai suoi tre figli, Mirjam, Jonas e Schemarjah, senza contare il quarto in arrivo, Menuchim, nato epilettico. Nonostante l’attenzione, l’amore e la devozione verso Menuchim, in seguito alla partenza di Schemarjah per l’America, quella di Jonas dovuta all’arruolamento e al vizio di Mirjam di «andare con i cosacchi», Mendel e Deborah decidono di partire per l’America insieme alla figlia per raggiungere il primogenito, abbandonando la loro casa e affidando Menuchim a una coppia di giovani sposi.
Negli Stati Uniti il figlio Schemarjah, americanizzato “Sam”, ormai ricco commerciante, riesce a sistemarli subito in un quartiere ebreo di New York, dove stringono diverse amicizie, tra cui quella con Skowronnek, rivenditore di dischi per professione. La loro “nuova vita” americana sembra andare per il meglio, tanto che in un momento di consapevolezza si rendono conto di star sperimentando felicità e speranza: Jonas, il figlio arruolato, temporaneamente in licenza, è andato a trovare Menuchim, ormai divenuto abile nel parlare e nel camminare; l’attività di Sam va a gonfie vele; Mirjam ha messo la testa a posto.
L’inizio della Grande Guerra, però, manda in frantumi l’apparente stabilità appena conquistata, portando Mendel, ormai rimasto solo, a vivere nel retrobottega del suo amico Skowronnek. Proprio uno dei suoi dischi, La canzone di Menuchim, funge da svolta nella vita di Mendel. La canzone è composta dal musicista Alexej Kossak, che si rivelerà poco dopo essere lo pseudonimo di suo figlio Menuchim: viene svelato, in un confronto tra padre e figlio, che in seguito allo scoppio di un incendio a casa Singer durante la loro assenza, un medico aveva preso il piccolo sotto la sua ala protettrice e lo aveva guarito dall’epilessia. Con questa scoperta si conclude il racconto della vita di Mendel Singer, finalmente riconciliato con suo figlio, unico legame con la famiglia perduta, «contemplando la grandezza dei miracoli e riposando dal peso della felicità».
La drammaturgia è stata costruita in maniera estremamente fedele al romanzo di Roth, le battute sono trasposte sulla scena attraverso i gesti, le parole e le emozioni dell’attore, intento a sfogliare il romanzo proprio mentre lo condivide con gli spettatori. Giobbe si trasforma in un racconto teatrale travolgente proprio come la vita, dove si ride e si piange, si prega e si balla, si parte, si arriva e si ritorna, si muore in guerra e si rinasce, senza giudizio, senza spiegazioni, ma attraverso lo sguardo mite e sereno di un narratore misterioso e onnisciente, accompagnati da un sorriso, lieve, dolcissimo, capace di dare forza a tutti i protagonisti. Una storia, questa, che ha come tema la vita – non solo quella di Mendel Singer e della sua famiglia, ma anche la nostra –, impossibile da decifrare e da prevedere, dove si può cadere e rialzarsi, dove nel disegno finale ci può essere un riscatto anche per il più umile essere sulla terra, anche per «uno stupido maestro di stupidi bambini».