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Re Lear

ovvero La recita della Follia

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Re Lear

ovvero La recita della Follia

Emilio Tadini – dal programma di sala

Chi traduce un testo deve cercare di leggerlo al meglio delle sue possibilità. Deve sforzarsi di entrare nel laboratorio dello scrittore che sta traducendo. Guardare da vicino le mosse – come maneggia e lavora la lingua…
Anche nel Lear Shakespeare mette prima di tutto in scena alternandoli, due registi della lingua tra loro contrastanti. Il registro alto, con una lingua indiretta, ricca di metafore echeggianti, ostinatamente strutturata secondo retorica. Ed il registro basso, con una lingua diretta, “povera”, volgare, immediata. Il contrasto, e l’intreccio, di queste due lingue – come sempre nel teatro di Shakespeare – ci emoziona, ci stimola, ci scuote di continuo. Fa sì che noi non ci si possa mai abbandonare a qualche abitudine dell’ascolto. (Anche Dante, nella Commedia, gioca con grande potenza su questo contrasto). A queste due lingue si aggiunge, qui, la lingua della follia. Si estende come una malattia contagiosa, questa lingua della follia. Attraverso tutta la tragedia, si manifesta sulla bocca di tutti i personaggi. Esprime abbandoni, evasori, furie, macchinazioni. Dà forma al desiderio. Scompigliandolo. Ogni tanto abbiamo addirittura l’impressione che quella lingua della follia sia addirittura predominante. Un indizio, un sintomo più che evidente. E allora il Lear non ci sembra la tragedia dell’ingratitudine, o della maestà offesa. Ci sembra proprio la tragedia della follia. La tragedia della follia del desiderio, chiaro o oscuro che sia. […]

Che il teatro sia una struttura della follia? O meglio: che mediante il teatro noi si lavori a fare della follia una vera e propria istituzione sociale? È come se Shakespeare ci dicesse che il teatro del mondo (il teatro che rappresenta il mondo e, insieme, quel teatro che è il mondo) non può consistere letteralmente,  non può prendere corpo – che in un dispiegarsi della follia. Ogni passione è un sintomo di quella follia. Il resto è, davvero, metafisica – puro sogno della mente. Il buffone è come se eseguisse una specie di basso continuo. Una traduzione in tempo reale della lingua “normale” nella lingua dell’assurdo… La furia di Lear posa e si placa quando lui, alla fine si immagina tolto dal mondo e dato alla prigione – difeso, per così dire, dalle mura di quella prigione – lui immagina di poter guardare, da spettatore, il teatro della verità. Che naturalmente, altro non è chela monotonia della follia del mondo.

Mettendo in scena il Lear nella limpida traduzione di Emilio Tadini, Andrée Ruth Shammah ha scelto di privilegiarne la dimensione intima e privata. […] Da non perdere.

– Ugo Volli, Grazia


Anche stavolta non si rimane delusi: Shakespeare è sempre Shakespeare ma i suoi personaggi, a cominciare dal re, sono più dimessi, hanno perso molto della dimensione sovrannaturale, sono più vicini a noi, più umani. […] la Shammah ci offre uno spettacolo di analitica finezza, con momenti felicissimi, altri più sobri di emozioni.

– Umberto Simonetta, Il Giornale


Andrée Ruth Shammah ha messo insieme una compagnia di imprevedibile unità ed entusiasmante allegoria, per un Re Lear che sarebbe piaciuto anche Shakespeare.

– Daniela Cohen, La Notte