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Eracle

Il pazzo legato alla colonna
di Dario Del Corno – dal programma di sala

Il teatro greco non aveva sipario: nel suo sistema non è prevista la sorpresa incantata che, allo schiudersi della quarta parete, introduce il pubblico nella realtà dell’illusione scenica. La rappresentazione iniziava quando i personaggi prendevano a muoversi e a parlare sulla scena, che si identificava con un lungo all’aperto. Poteva darsi che vi entrassero allora, oppure che vi fossero già presenti – e piacerebbe conoscere se e come era segnalato l’attacco del tempo alternativo che appartiene all’azione teatrale. Ma i drammaturghi della tragedia non ignoravano l’effetto provocato dall’apparizione improvvisa di uno spazio “diverso”; e con l’economia tipica dell’arte greca lo sfruttarono per intensificare il pathos di situazioni estreme. Nell’edificio che sta dietro la scena, una porta si apre; e si scopre che nell’interno c’è qualcosa che, per il suo stesso orrore, dovrebbe restare celato. In genere sono corpi morti di morte violenta, decisa e inferta da chi ostenta l’esito del misfatto: e l’uccisore è la persona più vicina alla vittima.

Un uomo vivo, devastato dalla follia, circondato dai corpi esanimi delle persone che più amava, e che lui stesso ha trucidato nel buio della mente, senza saperlo né volerlo: quale vista più orribile? Questo straziante spettacolo sta dietro la porta che lentamente si spalanca nell’Eracle di Euripide. Appare l’eroe sommo della gente greca, legato con mille nodi a una colonna della sua casa che non esiste più. Dorme, sfinito nel suo stesso furore: suo padre e un coro di vecchi vegliano con infinita angoscia e pietà il suo risveglio, e prolungano questa sospensione atroce con le formule del dolore tragico. Insieme a loro il pubblico condivide la spasimante dilazione di quest’attesa – ma tutti, i personaggi sulla scena e gli spettatori nella platea, sanno che cosa è accaduto. La catastrofe è avvenuta nel tempo dell’azione drammatica: prima due apparizioni soprannaturali l’hanno preannunciata, quindi un messaggero ha raccontato il fatto spaventoso in ogni dettaglio. Non resta che un dolore infinito, in cui sembra esaurirsi ogni possibile sviluppo della situazione; e tuttavia la conclusione della tragedia prepara dell’altro – e gli spettatori lo sanno. Essi conoscono il mito di Eracle; e questo impone all’eroe alti casi, altri patimenti nel futuro, prima che egli muoia per venire assunto fra gli dei.

Il dramma ha già passato i due terzi, sembra esaurirsi nella conclusione canonica del compianto sulla rovina che ha travolto il protagonista e ha estinto la sua famiglia: ma è necessario che Eracle venga avviato nuovamente lungo l’arduo cammino della sua vita.

Questo è l’evento che si attende, il colpo di teatro con cui Euripide rinnova la struttura e l’idea stessa della tragedia. L’uccisione dei figli avuti dalla prima moglie Megara faceva parte della saga di Eracle – e nella forma tradizionale del mito il delitto veniva espiato dal ciclo tremendo delle imprese, che sono il nucleo della sua fama. Ma Euripide si avvale della facoltà di mutare i dettagli del mito, salvaguardandone gli elementi fondamentali – e d’altronde la sua variante s’inoltra nel significato stesso dei materiali mitici, tanto da imporre un nuovo corso al modello tragico. Nel suo dramma Eracle stermina la propria famiglia “dopo” avere compiuto le sue gesta famose: e quest’inversione di tempi apre un vuoto davanti al suo delitto. Quale evento potrà scontare la sua colpa, consentire che egli viva ancora? Mutano i termini stessi dell’attesa tragica: essa non si rivolge più al “come” si produrrà una fine nota, secondo lo schema consueto della tragedia: ma si chiede “cosa” sarà questa fine – poiché essa non è prevista dal mito. Al calcolo drammaturgia di Euripide basta una piccola mossa nella scacchiera della tradizione mitica per rovesciare lo schema dell’universo tragico.

Ma nell’Eracle quest’inversione di tendenza si accompagna a un organico complesso di invenzioni strutturali. La tragedia era iniziata con uno spasimo e un’attesa: un tiranno belluino intendeva uccidere la famiglia di Eracle, e soltanto il ritorno dell’eroe da una lunga assenza piena di perigli avrebbe potuto salvarla. Il travaglio di quest’improbabile aspettativa si protende su tutta la prima parte del dramma; e quando ormai ogni speranza sembra perduta, Eracle arriva ed uccide il violento usurpatore. Il suo intervento è già una “catastrofe”, il rivolgimento che indirizza la situazione dal male al bene; ma il progetto divino rovescia di nuovo il corso degli eventi – con una frattura tanto drastica, da far supporre a parte della moderna filologia che il testo tramandato derivi dalla fusione di due drammi diversi. Ma la storia stessa della tragedia greca esclude la necessità di ricorrere a tanto avventurosa ipotesi. Tragedie strutturate in forma di “dittico”, ossia composte da due sezioni relativamente autonome, compaiono sia nel corpus di Euripide stesso, sia in quello di Sofocle: e il procedimento rientrava evidentemente nella prassi della drammaturgia tragica. Soltanto nell’Eracle tale tecnica è applicata con più radicale coerenza – ossia con un’opposizione totale fra le due parti: laddove nella tipologia consueta di questo modulo esse rappresentano due sviluppi paralleli di una medesima situazione, o la premessa e rispettivamente la conseguenza di una peripezia posta al centro del dramma, oppure la replica di due azioni affini. Ma quando il pathos della famiglia di Eracle si conclude nell’atto della salvazione, nulla lascia presagire che qualcosa sia rimasto aperto. Il trionfo di Eracle sul male sembra definitivo; e per rimettere in moto l’avversità del destino, occorre che compaiano due divinità in un episodio, che ha il tono e la funzione di un prologo ritardato.

La struttura anomala dell’Eracle è un indizio dell’inesausta volontà di sperimentazione, che innerva il teatro di Euripide: e tale programma nasce a sua volta dalla consapevolezza che il ciclo della tragedia correva il pericolo di esaurirsi. Per un verso, la crisi della società ateniese incrinava il mirabile equilibrio fra l’idea del divino e l’esperienza umana, che feconda i grandi interrogativi di Eschilo e di Sofocle. Lo spazio per gli orizzonti del trascendente si era ridotto, di fronte all’urgenza dei problemi che emergevano ne concreto dell’esistenza. Inoltre il teatro si stava trasformando da istituzione cittadina in spettacolo: e occorreva inventare una dimensione che soddisfacesse alla richiesta di un’azione emozionante quanto imprevista.

La nuova concezione della tragedia investiva sia l’organizzazione della sceneggiatura e della trama stessa, sia il nuovo orientamento del pensiero: e la qualità artistica e intellettuale di Euripide consiste nella capacità di fondere i due aspetti, assumendo la struttura stessa del dramma come strumento per esprimere una nuova interpretazione dei materiali mitici. Imponendo al pubblico inedite soluzioni al livello della drammaturgia, Euripide lo invita a una nuova comprensione dei significati della tragedia – e sopratutto dei valori che essa era chiamata a proporre nel concreto dell’esperienza.

Spettacolo da rivedere, questo Eracle della Shammah ha un andamento discontinuo ma intenso, che avvia una riflessione non epidermica su un testo tutto da scoprire.

– Renato Palazzi, Il Sole 24 ore


La regia di Andrée Ruth Shammah sottolinea l’attualità dell’opera di Euripide, un testo che quasi preannuncia il “teatro dell’assurdo” […] la tragedia è umanamente bellissima: così mi è parso l’abbia voluta e saputa rappresentare secondo una regia che ne esprime appieno i valori poetici attraverso agghiaccianti momenti spettacolari.

– Carlo Maria Pensa, Famiglia Cristiana


Questo Eracle è inteso dalla Shammah come un eroe umano circondato da una turba di divinità mostruose e vendicative, dentro una cornice ricca di invenzioni e fantasie.

– Ugo Volli, la Repubblica