Cinque teatri uniti nel reading
#callforwomen
un testo di Ippolita di Majo
in occasione della Giornata Internazionale della Donna
con Leda Kreider, Elena Lietti, Sara Putignano, Emilia Scarpati Fanetti
mise en espace Raphael Tobia Vogel
In occasione della Giornata Internazionale della Donna, il Teatro Parenti aderisce alla proposta che Roberto Andò ha rivolto alla Fondazione P.l.a.tea. per sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi di uguaglianza e pari opportunità e per condannare chi commette molestie, violenze e discriminazioni.
Venti attrici, quattro su ogni palco, daranno voce alle quattro protagoniste di #callforwomen: quattro donne, forse sorelle, che si scambiano con ironia e intensità i luoghi comuni che tante volte si sono sentite rivolgere. Una sorta di rito catartico che le aiuta a prendere consapevolezza, come un riscaldamento atletico per allenare sul tema la parola e il pensiero. E, mentre mettono insieme i materiali per un documentario sulle donne e il lavoro in Italia, ciascuna di loro porta la propria testimonianza.
Ho iniziato a pensare di scrivere qualcosa su questo specifico aspetto della condizione delle donne in Italia perché mi pare un argomento del quale non si parla mai abbastanza e spesso se ne parla male.
È invece un problema di primaria importanza che andrebbe affrontato e risolto quanto prima. Lo spunto è nato dalla lettura di alcuni articoli pubblicati su Alley Oop del Sole24 ore corredati da evidenze numeriche che mi sono parse incredibili, di una violenza notevole e dalla quale non è facile difendersi. Ne cito un paio: nel 2016 il 78% delle dimissioni da posto fisso sono state di donne che avevano avuto un bambino; nel 2020 le madri che hanno rassegnato le proprie dimissioni sono diventate 30mila, quasi la metà ha detto apertamente che il problema era proprio l’impossibilità di tenere insieme maternità e lavoro. Numerosi altri dati altrettanto gravi sono riportati nell’ultimo rapporto di Save the Children (2022) disponibile in rete.
Dal dolore provato nel leggere queste informazioni oggettive, inoppugnabili e inaccettabili è nato questo testo. Accanto alle donne che non hanno potuto conciliare maternità e lavoro, che si sono ripiegate, che hanno rinunciato a una piena espressione di sé, ho voluto raccontare anche quelle, e sono moltissime, che a forza di aspettare una situazione lavorativa un po’ stabile che non arriva mai, e credendo di potere controllare il tempo, non sono riuscite a avere figli pur volendoli disperatamente, non si sono accorte di essere diventate grandi, troppo grandi. E su questo influisce fortemente la generale disinformazione relativa al funzionamento dell’apparato riproduttivo femminile.
Il corpo delle donne è sempre e comunque oggetto di mistificazione. Anche in questo caso sono state le evidenze numeriche e statistiche a colpirmi al cuore, a smascherare la mia stessa ignoranza. Ho provato una rabbia indicibile, e allora ho pensato che era meglio metterla fuori questa rabbia, meglio farne qualcosa. E mi sono venute incontro quattro donne a cui ho voluto dare i nomi che Louisa May Alcott aveva dato alle sue Piccole donne. Ho avuto bisogno di riandare a una lettura dell’infanzia, riandare all’origine dei romanzi di formazione al femminile, per provare a dare corpo e parola ai personaggi che avevo in mente. E anche se le mie Meg, Giò, Emi e Bet sono molto diverse dalle Little women di Alcott, condividono con loro la convinzione che il lavoro e la realizzazione professionale sono alla base della formazione e della personalità delle donne come degli uomini.
Per dirla con Jo March, questa “è la storia della mia vita e delle mie sorelle”.
– Ippolita di Majo