Ma chi è Il bambolo?
di Chiara Narciso
Una relazione inaspettata quella tra una donna e un amico gonfiabile: Linda Caridi, unica protagonista, la racconta nello spettacolo Il bambolo. Si esibiscono entrambi nella cornice della Sala A del Teatro Franco Parenti, che continua ad ospitare monologhi sperimentali e spesso legati a questioni rilevanti al giorno d’oggi. Il fantoccio infatti non rappresenta altro che il rapporto della protagonista con il proprio io interiore, un io che distrugge silenziosamente e decostruisce nascondendosi agli occhi degli altri.
Lo spettacolo prende vita nel 2021 ma arriva al Teatro Franco Parenti in seguito ad un’iniziativa ideata dall’organizzazione Officine Buone: il progetto St.Art!. Un laboratorio teatrale realizzato dalla stessa Caridi in collaborazione con Erika Associazione per il reparto dei disturbi del comportamento alimentare dell’Ospedale Niguarda. Il contatto diretto con queste patologie ha preso forma, insieme al testo già precedentemente ideato da Irene Petra Zani, nello spettacolo Il bambolo per la regia di Giampiero Judica.
L’esperienza da cui scaturisce la messa in scena è chiara nell’interpretazione di Linda Caridi che prima dell’inizio dello spettacolo si trova già in sala, seduta accanto al suo compagno gonfiabile, da dove osserva il pubblico e si riscalda per la performance. Tre sembrano essere le storie differenti che l’attrice racconta, ma infine è la stessa e di un’unica persona, narrata in un tempo che nella sceneggiatura si presenta dilatato rispetto alla realtà. Quindici anni il primo dato che viene esplicitato dall’attrice riguardo a un episodio del passato fondamentale: il primo “no”, che ricorda bene. Era a mensa, in una mensa scolastica: tutti la osservavano. Non comprendeva il motivo reale per cui veniva squadrata dai suoi compagni, ma poi si rese conto che era il suo fisico ad attirare tutte queste attenzioni. È così che grazie all’abilità di assaporare ancora il burro e la lasagna solo pensandoci e guardandoli, la protagonista impara a dire il suo primo no e i molti altri che seguiranno.
Ad emergere è l’anoressia, simbolo di una ferita mai rimarginata che viene fisicamente rappresentata e che deriva dai traumi passati, dall’abbandono da parte della madre a sette anni e poi dall’abuso subito dal padre a undici, raccontato abbastanza esplicitamente. Il bambolo personifica per lei un simbolo di perfezione da cui prendere spunto, ma anche l’essere capace di soggiogare il proprio io interiore. La sfida di diventare sempre più leggeri, di farsi piacere a quaranta o a trenta senza mai specificare che si trattava dei chili che diminuivano con il tempo. L’unica ad interferire nella sua storia con il fantoccio è un’insegnante di nuoto, che distoglie i protagonisti dai loro obiettivi di coppia: la necessità di essere diversi dagli altri ma insieme. E se il personaggio di Caridi si ostinava inizialmente ad affermare di poter solo affondare in acqua, la scena finale rappresenta una liberazione da ogni convinzione autodistruttiva. La protagonista in un abbraccio morboso sgonfia il bambolo e si tuffa in mare, riscattando la sua consapevolezza e sottraendosi a questo gioco malsano.