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Il delitto di via dell’Orsina

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Il delitto di via dell’Orsina

Una commedia nera, una macchina fatta di trovate, energia, divertimento.

Il delitto di via dell’Orsina è uno degli atti unici più conosciuti di Eugène Labiche, padre nobile del vaudeville, talento prolifico e sopraffino capace di svelare, con indiavolate geometrie di equivoci e farse, il ridicolo nascosto sotto i tappeti della buona borghesia.

Due uomini, un ricco nobile ed elegante (Massimo Dapporto) e un proletario rozzo e volgare (Antonello Fassari), si risvegliano nello stesso letto, hanno le mani sporche, le tasche piene di carbone e non ricordano nulla di quanto accaduto la notte precedente. Quando dal giornale apprendono della morte di una giovane carbonaia si convincono di essere stati loro a commettere l’omicidio. Per i due protagonisti, disposti a tutto pur di sfuggire alla colpa e mantenere le apparenze, non resta che far sparire ogni prova.

Andrée Ruth Shammah che firma la regia e, assieme a Giorgio Melazzi, l’adattamento, mantiene intatta la struttura della pochade e del gioco indiavolato degli equivoci ma vira al noir seminando inquietudini all’ombra di qualcosa che incombe. La Francia perbenista e ottocentesca di Labiche diventa l’Italia del primo dopoguerra, pre-fascista e conformista. Alcune battute e personaggi sono “rubati” da altri lavori del drammaturgo francese per dare più spessore alle sottotrame e rendere più stratificata la vita che c’è dentro. Un sottile turbamento, fatto di piccole sospensioni, guida gli attori.

Clownerie e astrazione beckettiana, il ritmo del vaudeville e la tradizione del teatro brillante italiano si incontrano in un vaudeville noir che fa ridere e pensare e che con i suoi vorticosi intrecci riesce a raccontarci, in modo non scontato, il disorientamento che stiamo attraversando. Un atto unico che spinge sul gran gioco del teatro e delle sue possibilità, in cui si inseriscono couplets cantati. Una vicenda fatta di tensioni che gioca con i tanti tic di oggi e mette in scena il contrasto tra come vogliamo apparire e come siamo davvero dentro la solitudine che ci attanaglia.

Così una commedia come questa di Eugène Lebiche trova, più che una pura regia, una versione completa perfetta: traduzione, parziale riscrittura, aggiunta di due personaggi, due camerieri, inserto di canzoni per l’occasione composte: Shammah non è esclusivamente regista, qui, ma regista drammaturgo […] Ma non fa la morale, fa teatro, che è svelamento per incanto, e teatro comico, che è il sorriso integratore della conoscenza. E trova, in questa versione Shammah, una sua rappresentazione ideale. Utile, necessaria a tutti noi che viviamo nel semibuio da tanto tempo, e a cui il teatro può ridare luce, dal buio.

– Roberto Mussapi, Avvenire


Nella regia di Shammah si riconosce la volontà di spostare l’attenzione sull’ invenzione del teatro e il lavoro degli attori. E Massimo Dapporto è vitale, ironico, profondamente attore, e spesso vi si sovrappone il ricordo del padre, il grande Carlo; Antonello Fassari è il clown col naso rosso, scanzonato e guitto.

– Anna Bandettini, La Repubblica


Una superba prova attoriale del duo Dapporto-Fassari che sbeffeggia con estrema serietà la borghesia perbenista e conformista che Eugène Labiche collocò nella Francia dell’Ottocento e che Andrée Ruth Shammah, sposta nell’Italia del primo Dopoguerra.

– Antonio Sanfrancesco, Famiglia Cristiana


Senza forzature e appesantimenti ideologici, ma mettendo al centro, come sempre nei suoi lavori, il piacere del teatro, Andrée Ruth Shammah è riuscita a fare in modo che dietro, e dentro, il sorriso risuonassero anche note amare, e persino un po’ inquietanti. Rinaldo Vignati, Cultweek. La messinscena orchestrata da Andrée Ruth Shammah è di grande impatto ed eleganza: con minuzia certosina non lascia nessun dettaglio al caso. La regista sviluppa con meticolosità le personalità di ciascun personaggio, sviscerando tutte le sfumature del testo originale, finendo così per proporre al pubblico molteplici ulteriori livelli di lettura.

– Silvana Costa, Artalks