di Anton Čechov
traduzione, adattamento e regia Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah
con Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Gianni Mantesi, Bob Marchese, Grazia Migneco, Rolanda Benac, Giorgio Melazzi, Simona Caucia, Giovanni Battezzato, Secondo De Giorgi, Chicca Minini, Costanza Carpi, Silvia Dabbah, Piero Domenicaccio, Emanuela Nava, Fabrizio Pisaneschi, Pietro Ubaldi
scene e costumi Gianmaurizio Fercioni
musiche Fiorenzo Carpi
Stando accanto a Franco Parenti (la mia collaborazione dura dal 1969 – sono ormai dieci anni), ho potuto verificare come lui coltivi un progetto con pazienza e tenacia dentro di sé e programmi le tappe per arrivare alla sua realizzazione, senza dichiarazioni programmatiche, ma con una coerenza che solo oggi mi appare in tutta la sua chiarezza e luce.
Quando si stava preparando il progetto di quel mondo teatrale che prese poi forma come Gran Can Can di Orfani Gendarmi Evasi Bari Baroni Banchieri e Donne Dolenti, già lui ci parlava di un autore sconosciuto a tutti noi e a gran parte degli addetti ai lavori, Johann Nestroy, come tappa successiva di un teatro di farsa: un teatro del divertimento che si rivolge però soprattutto all’intelligenza dello spettatore. Sul suo tavolo intanto girava non solo il “Teatro Completo” di Molière (che fin dalla nascita era stato assunto come padre spirituale del Salone Pier Lombardo, quando il boom successivo, anche se auspicabile, non veniva previsto nemmeno dai più accorti) ma una vecchia edizione francese del Misanthrope che Parenti conosceva a memoria, ma di cui non parlava nemmeno. Aspettava di sentirsi “pronto”. Come Alceste, probabilmente, ma io credo soprattutto come “directeur de troupe”.
Ciò di cui allora ci parlava era il vaudeville, di cui nulla sapevamo o, se conoscevamo qualcosa, era in una prospettiva degradante, non certo come base di un’autentica vitalità del fare teatro. Labiche, Hennequin, Weber, De Flers et Caillavet, ecc. furono per noi una scoperta. Al Museo della Scala l’amico Siliotto aveva imparato a conoscere “quelli del Pier Lombardo” dalla richiesta di montagne di testi d’autori incredibili. Eravamo tutti scatenati alla ricerca di opere di quel periodo. Accanto a quello che chiamavamo un po’ pomposamente “gruppo di drammaturgia” (io, Gianni Valle e Maurizio Fercioni che, proveniendo da tutt’altre esperienze, fu probabilmente il più “illuminato”) si vedevano attori come Giorgio Melazzi il quale capì che la maturazione di un interprete passa anche attraverso la scelta di certi interessi su cui applicarsi. E mentre io m’innamoravo de Il Re o de La Presidentessa, Parenti aspettava che ci accorgessimo quanto Feydeau li conteneva tutti. Senza vanificare le nostre ricerche ci faceva capire come attraverso Feydeau quell’epoca, quel gusto, quella società arrivavano impietosamente fino a noi. Venne il momento del Misantropo e si cominciò a parlare di mettere in scena Feydeau. Tutte le discussioni giravano intorno a un unico punto: com’era difficile recitarlo. Recitare cioè la cattiveria di quei personaggi evitando le vuote macchiette che in generale siamo abituati a vedere sui palcoscenici italiani. E quando Parenti spiega la difficoltà di cogliere la verità del luogo comune, i modelli erano Ionesco, Beckett, Čechov.
Se in Feydeau il caso fa trovare nella stessa stanza personaggi che non avrebbero voluto e dovuto incontrarsi, in Čechov il destino mette insieme personaggi che non si sopportano, che parlano per non dirsi niente, che – in fondo – non hanno niente in comune.
Per gli attori recitare Čechov come lui desiderava essere interpretato significa liberarsi dall’atmosfera “patetica” o drammatica che si crea leggendo l’immediato corrispettivo di certi stati d’animo. Recitare Feydeau significa nello stesso modo non farsi prendere dall’apparente meccanismo che sembra togliere spessore ai personaggi. Così, pian piano, parlare di Feydeau diventò contemporaneamente per Parenti parlarci di come Čechov soffriva di sentirsi travisato. È noto l’aneddoto riportato da Stanislavskij, quando – al termine della prima lettura delle Tre sorelle – tutti gli attori della compagnia si misero a piangere, esclamando: “che dramma!” “che tragedia!”. Allora Cechov si alzò e uscì dal teatro, inseguito dal regista. Stanislavskij lo raggiunse a casa, trovandolo amareggiato e fuori di sé. Aveva scritto un vaudeville e gli attori lo prendevano per una tragedia.
Ecco perché ogni appuntamento del Salone Pier Lombardo viene raramente vissuto come uno spettacolo che può riuscire bene o riuscire male, ma è sempre parte di una lunga storia cominciata tanti anni fa in certe scelte di Franco Parenti (Ruzante e Porta che conducono a Testori; Il Dito nell’occhio a monte di Gran Can Can e di tutto il versante comico-satirico, ecc.) ma che prosegue di stagione in stagione crescendo d’intensità e di premura d’esprimersi, rinviando continuamente il senso di quello che s’intende generalmente come punto d’arrivo. Ogni risultato ne reclama un altro, ogni ciclo che sembra chiudersi apre nuovi spiragli che a loro volta premevano in precedenza aspettando il loro turno. Questa a me sembra la vitalità di un repertorio e il motivo di fondo del nostro lavoro e del nostro stare insieme.
– Andrée Ruth Shammah
L’allestimento curato “a quattro mani” da Parenti e Andrée Shammah ha il merito di offrirci un Čechov fuori dalle convenzioni, asciutto, riletto in chiave prevalentemente comica o quanto meno grottesca, lontana dai rarefatti patetismi della tradizione.
– Renato Palazzi, La Domenica del Corriere