di Molière
traduzione Cesare Garboli
regia Andrée Ruth Shammah
con Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Simona Caucia, Loredana Alfieri, Marisa Bilancia, Secondo Degiorgi, Giorgio Melazzi, Gianni Mantesi, Flavio Bonacci, Piero Domenicaccio, Laurent Gerber, Giovanni Battezzato
scene e costumi Gianmaurizio Fercioni
musiche Paolo Ciarchi
(ripreso nella stagione 1981-82 con Antonio Ballerio, Angelica Ippolito e nella stagione 1982-83 con Franco Alpestre, Francesca Muzio, Roberto Gandini, Alberto De Guido, Daniela Martell, Emanale Vezzoli)
Impressioni dopo aver assistito alla prima prova filata di Andrea Bisicchia
Dalla misantropia di Alceste alla malattia di Argan, ci si muove in una sorta di itinerario irto di difficoltà, perché il cammino avviene all’interno di un autore col quale il Pier Lombardo sente il bisogno di confrontarsi ogni qualvolta nell’ “aria” si avverte un senso di ribellione o di crisi.
Molière come poeta della crisi, come stimolo a percepire il proprio mondo interiore, ma anche come invito a continuare una ricerca che non è soltanto di tipo contenutistico, ma di scelta, di modo di concepire il teatro e quindi la vita. Nel mettere in scena Il malato, Andrée Shammah intende mantenere tale rapporto di continuità, che sa di approfondimento, di dialettica tra un testo e l’altro, di consapevolezza che nulla nasce dal caso, anzi che qualsiasi risultato “segnico” non e altro che la risultanza di “segni” adoperati in precedenza. […]
L’interpretazione di un testo non si esaurisce per Andrée Shammah in una lettura critica che le permetta di estrarre l’universo semantico che sta attorno a esso, ma tende sempre alla progettazione di una forma scenica, così lo spazio del palcoscenico assume la stessa importanza dello spazio della parola, e la scena progettata con Gianmaurizio Fercioni è concepita appunto come spazio della malattia di Argan.
Il malato immaginario per la Shammah è un testo — canovaccio, con al centro un nevrotico (anche Alceste lo era) e dove c’è un nevrotico c’è anche un tipo di comicità che ha tutte le qualità del comico di carattere che tende verso l’umorismo e questo, non dimentichiamolo, coglie il lividore della vita. […]
Altra caratteristica delle regie della Shammah è la ricerca della storia del testo, o della storia che sta dentro il testo: Ambleto, La doppia incostanza, Il Maggiore Barbara, solo per fare tre esempi. C’è a base di questi una sorta di ambiguità perenne, ma anche di crudeltà: la crudeltà del mito, la crudeltà dell’amore, la crudeltà della ricchezza. Ma c’è anche la tendenza a liberare i fantasmi del testo da una precisa datazione storica e a farli vivere in uno spazio di allusività che è anche di continuità.
Così la scelta dei costumi, pur ammiccando al passato, intende proporre ancora un anello di congiunzione tra antico e moderno, convinti che quando si affronta un classico questa trasposizione è indispensabile, se non necessaria. Nei costumi dei medici che ronzano intorno ad Argan non è possibile evitare il rapporto con i camici ospedalieri dei nostri luminari; il nero e il bianco sembrano rafforzare questo continuo richiamo tra ieri e oggi. […]
Ciò che maggiormente interessa Shammah è la parola che assume e riassume l’avvenimento del gesto, ma anche la fantasia delle cose più che le cose in se stesse. La parola è tutto a teatro. La crisi della parola diventa la crisi delle istituzioni, ma anche la crisi del teatro o della letteratura in genere. Sulla “parola” lavoriamo tutti e con essa continuiamo a confrontarci. Sono le parole che contano ne Il malato, non nel loro significato letterale, quanto in quello più nascosto.
Uno spettacolo che ha una sua indubbia eleganza intellettuale e non rari momenti di felicità espressiva.
– Roberto De Monticelli, Corriere della Sera