di George Bernard Shaw
traduzione Agostino Lombardo
regia Andrée Ruth Shammah
adattamento Andrée Ruth Shammah in collaborazione con Guido Vergani
scene e costumi Gianmaurizio Fercioni
musiche Fiorenzo Carpi
con Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Loredana Alfieri, Antonio Ballerio, Giovanni Battezzato, Flavio Bonacci, Simona Caucia, Secondo Degiorgi, Piero Domenicaccio, Laurent Gerber, Sergio Giuffrida, Angelica Ippolito, Gianni Mantesi, Grazia Migneco, Pierluigi Picchetti
Ripreso nella stagione 1981-82
con Marina Guerrini, Maria Teresa Bax, Giorgio Melazzi, Lele Vezzoli
Perché “L’Imperatore d’America”?
La scelta di un testo non è mai casuale, nasce da circostanze ben precise che sono o di carattere drammaturgico o d’impegno sociale. Il lavoro svolto su Il Maggiore Barbara (la ricerca di una “teatralità shawiana”, attraverso una serie di “sequenze” e allo stesso tempo di uno “spazio diverso”; il moltiplicarsi dei “piani di lettura” durante la realizzazione; l’esito finale che ha coinciso con la nascita di nuovi fermenti) non ha lasciato dubbi né a me né a Franco quando, proposto questo “dittico”, decidemmo già nell’estate scorsa di realizzarlo.
Trovammo, a suo tempo, troppe coincidenze tra i due testi, benché separati da circa venticinque anni, coincidenze di scrittura teatrale, di nuclei tematici su un tipo di capitalismo individualistico (Andrea Undershaft) e di tipo plutocratico (La Società Anonima Guasti e Rotture), sul rapporto tra capitale e potere, sull’inarrestabilità del progresso che spinge a ulteriore crisi o al deterioramento completo dell’ottimismo borghese a vantaggio di quel culto della persona che in Shaw non ha i connotati né dell’eroe di stampo romantico, né tanto meno di stampo nietzschiano, sul significato e sull’importanza che il denaro occupa in un tipo di società a sviluppo avanzato, sul rapporto tra razionale e irrazionale, tra verità e realtà. Ma oltre le coincidenze, ci fu anche la scoperta di uno Shaw non più autore brillante, ma attento indagatore della sua contemporaneità; di autore che fa dell’elemento economico la leva portante dell’agire umano. […]
Quando iniziammo la lettura de L’Imperatore d’America, decisi di intervenire con un mio adattamento, attraverso uno studio approfondito durato parecchi mesi; un adattamento che tenesse ancora conto del carattere “provocatorio” insito nel nucleo ideologico del testo, una provocazione che affascina e che sconcerta, che unisce e che divide, ma al tempo stesso un adattamento che rinunziasse all’allettante tentazione di una attualizzazione che potesse rispecchiare i problemi di un’Italia contemporanea.
Ho voluto ancora una volta lasciare la parola a Shaw e alla splendida macchina teatrale in cui L’Imperatore d’America andava sempre più configurandosi nella mia scelta di regia. Così dopo tante discussioni sul problema della democrazia, sulla sua natura, sui pericoli che in essa si annidano, sulle viscide e subdole tentazioni del Capitale, sulla “convivenza” tra gli uomini addetti a guidare uno stato, sui problemi del socialismo, della governabilità, dell’alternanza, mi si prospettava non uno Shaw radicato nel materialismo storico, attento ai problemi più scottanti, ma soprattutto legato a un’idea di socialismo libertario e senza confini.
Come arrivare a tutto questo?
L’esperienza de Il Maggiore Barbara mi aveva già insegnato come la vera trama in Shaw è affidata allo scontro tra diverse concezioni del mondo di personaggi apparentemente privi di vita, ma di cui è possibile far emergere l’umanità e la verità di uomini veri, perché la passione (intellettuale, certo) e la carica vitale che stava a monte di queste idee aiutava in qualche modo a entrare e a dar corpo all’intera vicenda.
Ma ne L’Imperatore d’America, Re Magnus, che è poi il filo conduttore di tutta la vicenda, si esprime con tanta sottigliezza, misteriosità e ironia (e, in fondo, con tanta malinconia) che anche con l’aiuto che nel Il Maggiore Barbara mi era venuto dall’aggressività e dalla passione che faceva vibrare i personaggi, mi è venuto a mancare e mi sono trovata impotente davanti a un compito che, durante tutto il periodo della preparazione, delle prove a tavolino, e delle prime prove in piedi, mi è apparso veramente troppo spigoloso e antipatico.
Ma siccome sono cocciuta, una sfida del genere non mi spaventa e mi tenta. E così ho scritto sul mio copione una frase letta non mi ricordo più dove: “molte cose non vengono osate perché sono difficili; molte sembrano difficili soltanto perché non vengono osate”. Ed eccomi qui.
Ora le prove procedono su binari rigorosi e molto più semplici. Sono state scartate parecchie scelte scenografiche e numerosi interventi drammaturgici. È rimasta l’idea base: la monarchia è di per sé una rappresentazione. Del resto l’idea di calare un dibattito politico su di un palcoscenico coincide molto semplicemente con l’idea di “politica” come luogo di finzioni, di mascheramenti e smascheramenti, e te la offre lo stesso Shaw.
La commedia infatti si apre su una scena che solo apparentemente sembra non avere niente a che fare con il resto, ma che in realtà dà una chiave di lettura all’interpretazione complessiva di tutto il testo. Sempronius, parlando di suo padre, (ed essendo poi esattamente come suo padre) parla di lui come di un artista dello spettacolo, che metteva in scena le grandi cerimonie pubbliche, che stava dietro le scene, che avrebbe guadagnato milioni con il teatro, che credeva nella celebrazione della regalità, e nella realtà degli uomini solo se dipinti e in costume.
Da questa concezione della vita a corte e della seduta del gabinetto come spettacolo è emerso il binario unitario e unificante che è l’idea di rappresentare nel modo più “semplice” possibile una rappresentazione.
Ora “questa idea semplice” si trattava di realizzarla. Ma questo è un altro problema: il tormento ricomincia ogni volta ed è l’eterno conflitto tra fantasia e realtà, tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che si può fare o si è capaci di fare (con “L’Imperatore d’America”, di questo beffardo dissacratore di Shaw).
Operazione Shaw riuscita (per la seconda volta). Il Pier Lombardo si conferma con questo allestimento teatro autenticamente pubblico, luogo di incontro culturale e di riflessione civile.
– il Giorno
La regia di Andrée Ruth Shammah persuade, avendo colto la linea profonda del testo e avendola tradotta in termini secchi e leggeri, nella ridente fatuità d’una rappresentazione nella rappresentazione. La bravura sottile di Franco Parenti si congiunge a quella altrettanto ricca di Lucilla Morlacchi: il loro duetto è un raro pezzo di squisitezze interpretative.
– Odoardo Bertani, Avvenire