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La tempesta

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La tempesta

Lo spazio del teatro – testo di Emilio Tadini dal programma di sala

È stata Andrée Shammah a farmi notare che la mia Tempesta era piena di immagini e di metafore che avevano a che fare con il teatro. E, da allora, è un po’ come se fossi stato messo nelle condizioni di riconoscere, nel libro, la teatralità anche di certi spazi, di certe scene. Poi mi è venuto in mente che, subito dopo la guerra, a Milano, si andava a teatro, in gruppo, quasi ogni sera, e si fischiava le commedie del vecchio repertorio, e poi si parlava di teatro, e la domenica mattina si correva alle riunioni di un circolo teatrale che si chiamava “ll Diogene”, a sentir leggere testi di teatro e a discuterne, e lì, per esempio, Paolo Grassi aveva letto i drammi dell’espressionismo tedesco — di Toller o di Wedekind – prima ancora che uscissero nei piccoli libri bellissimi della colonna di teatro di Rosa e Ballo. Adesso, i libri di quegli anni si disfano come wafer, a prenderli in mano, perché la carta è troppo povera di cellulosa. Ma i ricordi, naturalmente, resistono ancora piuttosto bene e si può maneggiarli senza danni apparenti.

È stato molto bello vedere come il testo teatrale venisse fuori a poco a poco dal testo narrativo sotto le mani di Andrée. È poi stato davvero emozionante scrivere una lunga battuta di Prospero, che Andrée mi aveva chiesto, e il giorno dopo sentirla dire dalla voce drammatica, faticosa e ansiosa di Mazzarella. Ma, a proposito di Mazzarella, è stato molto bello vederlo prima leggere il testo a voce alta, e poi abbozzare la recitazione, e infine recitare. È stato come se un personaggio che, scrivendo il libro non avevo né immaginato né descritto per quanto riguardava l’aspetto fisico e la voce e i gesti, prendesse corpo davanti a me. E io potessi pensare soltanto: “È lui!” O qualcosa del genere. Che grande attore!

E poi c’è stata l’emozione di entrare nel teatro vuoto, e vedere la scena perfetta che era già lì – già fatta, dico: nello spazio nudo che si apre, al Franco Parenti, davanti alla platea. Quello spazio era lo spazio squallido e grandioso dell‘isola del mio Prospero, tale e quale. Desolazione – e una specie di capovolta sontuosità…

Mi è venuto in mente il finale di quel racconto di Melville che si intitola Barthleby lo scrivano – quando il protagonista diventa matto e lo ricoverano al manicomio, e allora Melville descrive lo scenario cupo del manicomio come se fosse una architettura antica — monumentale, solenne. E mi è anche venuto in mente che forse avevo pensato anche a Barthleby, immaginando Prospero. Proprio come avevo pensato a Don Chisciotte, a Robinson, al Prospero di Shakespeare, naturalmente all’ Enrico IV di Pirandello. Che, come si vede non mi sono posto limiti nel pensare. Ma perché avrei dovuto farlo?

E, poi (a proposito di comico — già che ci siamo) poi mi sembrava di essere uno di quegli attori dei film sul teatro — che mi sono sempre piaciuti molto. Quell’entrare e uscire dalla realtà – o dalla finzione… E le prove, le voci degli attori che si alzano, si fanno davvero teatrali – e poi tutto che cade, di colpo, le interruzioni, le tensioni piccole o grandi, le ipotesi, gli aggiustamenti, il valore del suono di ogni parola, di ogni sillaba – e i tempi, i tempi. (Che era un po’ come assistere all’esecuzione di una grande scultura. Togliere, aggiungere, scavare…).

Con quella specie di forma – al di là e al di sopra della forma concreta dello spettacolo sulla scena — con quella specie di forma immateriale ma che, pure, si faceva sentire… La forma di un modello ideale. Proprio una specie di “idea” di quel testo. Come se qualcosa di indefinibile e indescrivibile – ma del tutto presente – finisse per funzionare come il motore di un meccanismo in grado di produrre giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, un po’ di senso. Nel lavoro di scena. Sulla scena. Una specie di povera, piccola incarnazione…

La riduzione teatrale e la regia di Andrée Ruth Shammah non soltanto hanno puntigliosamente ripercorso l’originario sviluppo tramatico, ma hanno meritoriamente ricreato in palcoscenico la stessa aura misterica, visionaria, surreale in cui il pittore-narratore-poeta Tadini ha immerso la vicenda vagamente ispirata all’omonimo capolavoro shakespeariano.

– Gastone Geron, Il Giornale


La grondante letterarietà del romanzo non diventa mai teatro, ma è Andrée Ruth Shammah, ispirata ricercatrice delle pagine tadiniane, che riesce a sfrondarle della noia e restituirla in dimensione drammatica sul palcoscenico fatto davvero isola in una periferia metropolitana della mente.

– Carlo Maria Pensa, Famiglia Cristiana


Adagiare un romanzo sulla scena, compiere quella rischiosa operazione di chirurgia culturale che è l’adattamento drammaturgico di un testo letterario, è impresa di enorme difficoltà. Andrée Ruth Shammah ci è riuscita impeccabilmente, con quella creatività che confluisce nel rigore, tipica della gente che il teatro lo ama sul serio.

– Umberto Simonetta, L’Indipendente


La Shammah ha reso al meglio, davvero con intelligenza e partecipazione, il testo, sia nella sua vivacità fabulatoria, sia nei suoi guizzi ironici, sia nei suoi strali linguistici da cui il dialetto è rigorosamente esiliato. […] La cifra dello spettacolo è di buona qualità e intride il copione della drammaticità della quale il testo non appare dotato prevalendo in esso l’ambiziosità formale e il gioco tecnico della struttura.

– Odoardo Bertani, Avvenire