di Emilio Tadini
regia Andrée Ruth Shammah
con Anna Nogara
nello Spazio Nuovo ideato da Gianmaurizio Fercioni
sonorizzato da Michele Tadini
illuminato da Marcello Jazzetti
Qui tutto è finto tranne la passione
Il lavoro di Andrée Shammah nel mettere in scena La deposizione, il monologo di una donna accusata di sette omicidi, parte dalla premessa che il testo contenga in sé due nature in qualche misura contraddittorie. A una struttura realistica, quasi da “legal thriller” ambientato in Corte d’Assise, si contrappone il delirio affabulatorio della protagonista, che parla apparentemente senza logica, incurante di qualsiasi “convenienza processuale”. Il Presidente, il Pubblico Ministero, l’avvocato difensore, citati più volte, sono presenze-assenze, figure irreali che, di fatto, non intervengono mai. L’obiettivo della regia quindi è stato quello di estrarre, dalla densità della prosa di Tadini, tutti gli elementi di verità che permettessero di costruire una donna a tutto tondo, che riuscisse a trasmettere la propria interiorità al pubblico, che riuscisse a commuovere per la sua umanità.
Forte del beneplacito dell’autore che, sulla base dell’esperienza della Tempesta le ha dato piena fiducia, Andrée Shammah ha voluto far emergere la passione, le risonanze vitali molto potenti di un testo volutamente ambiguo. ll lavoro di drammaturgia ha cosi portato in primo piano la storia della protagonista, ha dato corpo alle sue parole favorendo i racconti del suo passato, la straziata solitudine in cella in attesa del processo, il giovanile “darsi”agli uomini, la sapiente costruzione dei suoi rapporti con individui che riportava alla vita e che l’abbandonavano appena rinvigoriti. E contemporaneamente le ha costruito un’identità. Un nome e un corpo: Elide Zampelli.
Alcune possibili professioni: caposala ospedaliera, stockista…Come già era avvenuto per Marivaux nei Cortili dell’Umanitaria, per Ondine alla Villa Reale, per La cerca del Graal al Castello Sforzesco, nel mettere in scena La deposizione, Andrée Shammah ha sentito il bisogno di cercare un luogo diverso dal palcoscenico e questo spettacolo è un’altra tappa della sua ricerca di ambientazioni “in simbiosi” con i testi da rappresentare.
A questo scopo lo Spazio Nuovo del Teatro forniva stimoli importanti. La vasta stanza scandita dai pilastri poteva infatti essere facilmente connotata sia come sede temporanea di Corte d’Assise, evidenziando in tal modo l’aspetto realistico, sia come spazio “altro” per un processo metafisico.
Entrambe le strade sono state percorse per alcuni giorni, ma la seconda ha rapidamente dimostrato di essere la vincente. L’infilata di porte alle spalle dell’area scenica suggerisce un “al di là” (processo divino?, processo alla coscienza?), e le idee spiazzanti di Gianmaurizio Fercioni, che ha in un primo momento riempito la sala con un vero tappeto d’erba, sembravano adattarsi perfettamente alle ambiguità del testo. Un’ ambientazione astratta favoriva inoltre l’emergere della verità cercata, che sembrava invece sminuita in un contenitore realistico. ll luogo è stato quindi immaginato come la sala in cui non solo la protagonista, ma anche tutti gli spettatori fossero in attesa della propria “sentenza finale”.
Idea che si è evoluta fino a quella definitiva di uno spazio “mentale” in cui si svolge una sorta di prova generale della deposizione che Elide andrà a compiere: uno spazio gelido, di plastica, illuminato al neon, dove “tutto è finto tranne la passione”. A questo spazio corrispondono le musiche di Michele Tadini che lo amplificano o gli si contrappongono con una funzione simile a quella che avevano nella Tempesta.
È sicuramente passione quella di Elide: una donna che forse è sia colpevole che innocente, e che, anche se colpevole non è condannabile in quante ogni suo gesto è stato dettato dall’amore, e anche se assolta si condanna di fronte alla propria coscienza.
Certa di poter contare sulle qualità di un’attrice come Anna Nogara, capace di rendere sulla scena le più ardite pagine letterarie, la regia ha soprattutto voluto estrarre la passione di un personaggio corposo, popolare, per alcuni aspetti molto lontano dall’interprete.
E’ stato un percorso pieno di accelerazioni e scarti improvvisi: continui ritorni dallo spazio al tavolino, utilizzo di improvvisazioni, grande lavoro sui piccoli gesti capaci di generare una verità profonda proprio perché semplice. Ma è un percorso che sta conducendo Andrée Shammah alla meta che si era prefissata: se ogni lacrima di questa donna commuove ora profondamente noi “addetti ai lavori”, che abbiamo fatto ormai l’abitudine ai suoi sfoghi, non potrà che fare altrettanto con gli spettatori che la incontreranno la prima volta.
Mi sono trovato di fronte a un vero e proprio personaggio, abilmente costruito dalla Shammah […] il risultato è stato una sorta di portrait de femme venato più di complicità che di sgomento, più di ammirazione che di pietà…
– Giovanni Raboni, Corriere Della Sera
Un’ennesima prova di virtuosismo, la regia di Andrée Ruth Shammah; e un irrisolvibile sconcerto per gli spettatori che non riescono a farsi un’idea sull’innocenza o la colpevolezza dell’imputata.
– Carlo Maria Pensa, Famiglia Cristiana
Con la Shammah come prima indagatrice di ogni suo gesto, lambendo le pareti e indagando a sua alt lo spazio da faina, mentre Michele Tadini la fa seguire da echi strascicati delle battute appena dette, Anna Nogara si dipinge addosso il personaggio con orgoglio e ansia masochista.
– Franco Quadri, la Repubblica
La regia di Andrée Ruth Shammah, una regia di piccoli gesti, di minime sfumature, dà corpo e carne a questa creatura verbale, interpretata con penetrante adesione da Anna Nogara, mentre lo spazio ideato da Fercioni lascia intravedere una cella oltre la quale si apre un enigmatico “altrove”.
– Renato Palazzi, Il Sole 24 ore