di Eric-Emmanuel Schmitt
traduzione Miro Silvera
regia Andrée Ruth Shammah
scene Gianmaurizio Fercioni
con Sara Bertelà, Ugo Gregoretti, Milvia Marigliano, Marco Messeri, Luciana Savignano, Corrado Tedeschi
La lettura del testo è sicuramente diversa dalla sua realizzazione scenica, specie se hai il privilegio di assistere alle prove durante le quali, ascoltando Andrée e vedendola lavorare con gli attori, finisci per entrare in un altro tipo di creazione. Così ho voluto confrontare le mie personali considerazioni con i suoi interventi, i suoi consigli, le sue segnalazioni.
La prima raccomandazione che le sento fare è: state attenti alla lingua di Schmitt; si tratta di una lingua elaborata, manierata, raffinata, inventata; una lingua tonale nel senso che va intonata con l’attore che la pronunzia, che la interpreta, dato che ogni personaggio ha un suo modo di parlare, di essere, ed aggiunge: “tonale vuol dire che è anche voce che ha una sua concretezza, una sua realtà che tende verso una dimensione traslata, allusiva; voce di corpi che cercano di adattarsi in un luogo senza forza di gravità, in una scena concepita come contenitore di evocazioni, anche se in essa accadono cose concrete.”
Andrée suggerisce agli attori come dare consistenza a questa lingua, come trasferirla nel personaggio, come raggiungere una dimensione ontologica, come armonizzarla con corpi che si trovano in bilico tra l’abbandono di un mondo e il raggiungimento di un altro che è proiezione del loro vissuto, i cui riferimenti non possono essere cose terrene, ma le cose ultime, quelle che ci fanno vivere in una specie di limbo, tra il tempo e l’eternità, tra l’aldiqua e l’aldilà.
L’Hotel rappresenta una zona liminale, il luogo dove ogni giornata manifesta una sua eccezionalità perché irripetibile, in quanto uno strano ascensore può portarti via. Anche i personaggi vivono eternamente questa liminalità, tanto che, per loro, l’attesa diventa il denominatore comune, benché ciascuno la viva in maniera diversa e con una tensione personale. Questa singolare condizione, avverte Andrée, ha bisogno di una espressività particolare che non può essere quella del quotidiano, perché ogni personaggio porta in scena la proiezione di sé, un’emozione che deve essere una sintesi dell’eventuale trapasso a cui occorre che lui si abitui. Per questo motivo, ogni gesto deve rispecchiare una simile situazione, cioè sintetizzare stati d’animo differenti che oscillano tra una dimensione reale ed una irreale. Ecco in che cosa consiste la difficoltà sia della scrittura che della costruzione dei personaggi in questo testo, continua Andrée, Schmitt propone un teatro metafisico costruito sull’ambiguità, su un “oltre” che non ha come fine ultimo dio, ma una trascendalità dove raramente si perde il valore della persona e, quindi, del corpo.
Ed ecco il motivo per cui il corpo, quello del personaggio e quello dell’attore debbano vivere una osmosi diretta, esclusiva. Sono corpi che tendono a liberarsi da una loro infermità e a raggiungere stati di leggerezza, e di buffoneria, di fibrillazione, di vivacità, di malinconia, di turbamento. Ci sono, poi, dei momenti durante i quali devono riuscire a prendere consapevolezza dell’abbandono e quindi del mistero che ne conseguirà.[…]
Dopo aver esplorato il testo, sulle cui osservazioni ho cercato di dare una sintesi, Andrée si concentra sul lavoro con gli attori, continuando a ricordare che in quell’Hotel particolare si muovono dei corpi sdoppiati, non certo alla maniera pirandelliana, perché i liberati dalle loro disavventure terrene, dal loro dolore, dalla loro fisicità. Sono corpi che emanano un intensità di sentimenti poiché la loro energia ha qualcosa di soprannaturale. […]
Il letto che Andrée fa girare dagli angeli mi ricorda l’utilizzo del tavolo nello spettacolo Io, l’erede di Eduardo: un tavolo che girava per scandire il tempo, un letto che gira, non solo per motivi iperpratici, ma anche simbolici, perché costituisce la simbologia del cerchio.
Anche quando cerca di spiegare tutto ai suoi attori, Andrée sostiene che nel testo esistono delle domande che hanno un senso se non si dà una risposta, proprio perché contengono delle ambiguità, degli enigmi che occorre lasciare come sono. L’importante che dietro di esse ci siano dei pensieri che, avverte Andrée, non vanno sovraccaricarti di virtuosismi, né sovrappopolati perché tutto deve scorrere liscio come la vita anche quando è in attesa dell’irreparabile.