di e con Dario D’Ambrosi
Tutti non ci sono inizia con la proiezione di un filmato girato a New York dall’italoamericano Gerald Saldo: nella Grande Mela, un paziente psichiatrico esce da un ospedale con una gabbietta vuota in mano, e vaga senza meta per la metropoli.
L’uomo indossa un camice, un pigiama ed un paio di pantofole; ha il volto bianco e smagrito. È il 1978 e, in ossequio alla legge 180 di Franco Basaglia, chiudono i manicomi. I pazienti vengono dimessi dagli ospedali psichiatrici, catapultati nella città senza alcun criterio, senza considerare che molto spesso il matto viene considerato dalla società come qualcosa di ingombrante e scomodo, di cui nessuno si vuole assumere la responsabilità.
Nel filmato il paziente si trova solo, nel caos cittadino, l’unico oggetto che ha con sé è una gabbia vuota.
Dopo lungo peregrinare il malato arriva di fronte la porta di un teatro; si passa così dal filmato all’azione scenica.
Entra di spalle agli spettatori e si incammina verso la scena. L’esterno, la società, diventa il pubblico, lo spettatore è costretto suo malgrado a confrontarsi con la diversità, con un uomo che si fa fatica a considerare un attore che recita. Egli è a stretto contatto con il pubblico e lo invita a fare azioni stravaganti, pronunciare parole di cui ci si vergogna. Procedendo a braccio, D’Ambrosi costringe gli spettatori ad accarezzarlo e a stringerlo, ricreando quella ritrosia che è tipica di chi si trova di fronte a un vero malato di mente. Sulla bocca dello spettatore si disegna quel lieve sorriso di imbarazzo che caratterizza l’atteggiamento che si ha per i matti. D’Ambrosi sembra allora davvero un povero malato e lo spettacolo riesce nel suo intento di dimostrare quanto sia labile il confine tra pazzia e normalità, interrogandosi sul concetto stesso di pazzia al di là dei comuni preconcetti.