Archivio / Teatro

Caduto fuori dal tempo

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Caduto fuori dal tempo

Una parabola filosofica, poetica e immaginifica.

Elena Bucci e Marco Sgrosso adattano per il teatro il romanzo di David Grossman,  in cui lo scrittore israeliano riflette sulla perdita del figlio Uri, ucciso in missione in Libano nel 2006, trasformando il dolore in parola poetica.

Gli attori prendono per mano il pubblico e lo accompagnano in un viaggio intimo e visionario nello spazio fuori dal tempo.

In un luogo immaginario, un padre che ha perso il figlio intraprende un viaggio per andare dove il mondo dei vivi confina con la terra dei morti. A poco a poco si unisce a lui una varia umanità che vive lo stesso dramma e lo stesso dolore: il Duca signore di quelle terre, una riparatrice di reti da pesca, una levatrice, un ciabattino, un vecchio insegnante di matematica e un ex giullare, incaricato dallo stesso Duca di prendere nota delle storie dei suoi sudditi che hanno perso i figli.

 

Grossman ci trasporta in una dimensione intima e visionaria in cui si può accettare l'assenza e compiere il rito del saluto che permette di tornare a vivere». Una dimensione in cui, aggiunge Sgrosso, «i drammi individuali si dissolvono in un inno d'amore che riunisce tutti.
Elena Bucci

Bucci e Sgrosso sono riusciti a tenere la delicatissima tensione fra immagini, parole, movimento, voci. Ecco, questa messa in scena mi dice qualcosa sul processo di tornare alla vita.

David Grossman

Caduto fuori dal tempo è un testo che porta in sé una mite e potente rivoluzione: in un’epoca dove molte culture tollerano con fatica il lutto, quasi fossimo eterne, infantili deità, David Grossman si avventura con coraggio nel difficile viaggio dentro la morte e lo traduce in parole che riconosciamo autentiche e nostre. Attraverso la scrittura trasforma il suo dolore personale in parola poetica e universale che cura e consola, permettendoci di intravedere, nel nostro mondo colorato e rumoroso, la sua dimensione intima e silente, visionaria, dove si può accettare l’assenza e compiere il rito del saluto che permette di tornare a vivere. È una contemporanea discesa negli abissi che ci ricorda l’antica e profonda funzione delle arti e l’importanza dei riti collettivi nell’avvicinarci al mistero del nostro passaggio nel mondo. Fa risuonare il coro di un’umanità che ha sempre cercato di fare del dolore di ognuno il dolore di tutti, ridendo e piangendo, creando racconto e memoria. Così il lutto dei personaggi del testo diventa il nostro lutto: nello spazio fuori dal tempo del teatro riaffiorano i ricordi, si aprono fessure che mostrano un “laggiù” che ognuno immagina e nessuno conosce. È là che vuole spingersi l’Uomo, dopo anni di silenzio, per andare in cerca del figlio perduto in guerra, mentre la moglie, la Donna, resta, facendo un percorso diverso e parallelo che li avvicinerà, facendoli ritrovare l’uno all’altro. Al loro cammino si affianca quello di altre creature nelle quali si rispecchiano, si moltiplicano, si confondono. Il racconto è affidato allo Scriba delle cronache cittadine, un ex giullare incaricato dal Duca di prendere nota delle storie dei suoi sudditi che hanno perso i figli. È lui che ci guida nella notte in un paese sospeso tra diverse epoche dove incontriamo una Donna muta nascosta in una rete in riva al lago, un Ciabattino e sua moglie, la Levatrice, dolenti e pazienti, un Centauro mezzo uomo e mezzo scrivania, condannato e graziato dalla scrittura, un Maestro di Aritmetica che canticchia formule per fermare il tempo, il Duca stesso, che non sa più guidare. Tutti partecipano ad una veglia di sogno innescata dalla partenza dell’Uomo verso “laggiù”, camminando, ricordando, scrivendo, meditando, per scoprire, attraverso il Centauro, che “c’è respiro nel dolore, c’è respiro”, come gli sussurra la voce di un bimbo invisibile. Si apre uno spiraglio di aria fresca. Dopo il suo possente scavo la scrittura si è intrecciata al teatro e con sorprendente naturalezza, sotto i nostri occhi, dentro di noi, sul palco, è diventata suono, voce, colore, musica, un luogo dove ritrovare i perduti, uno spazio di catarsi dove ci sentiamo in pace, vicini, sospesi nello stesso attimo, sulla stessa soglia, ad ascoltare una favola nella quale il dolore si trasfigura. Caduti fuori dal tempo.
Elena Bucci
È un’opera in cui si precipita, risucchiati da un vortice di dolore che dalle prime righe si fa canto, le parole si moltiplicano facendosi sinfonia nella loro musicalità, che le rende “cuntu”: un compianto a due voci che si arricchisce di echi e sfumature nel librarsi dal buio iniziale verso lo spiraglio di una luce nuova. Personaggi e luoghi scolorano l’uno nell’altro e si intrecciano, e i drammi individuali si dissolvono in un inno di amore che riunisce tutti nella marcia verso il confine che separa i vivi dai morti, al cui cospetto forse sarà possibile ricominciare a vivere in una riconciliazione pacificata.
Marco Sgrosso