Archivio / Teatro

R.A.M.

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Un esperimento di teatro distopico sicuramente riuscito: ben diretto dal giovane Michele Mangini e col beneficio di una scena d’eccezione, installazione dell’artista Michele Iodice che ha ideato anche inquietanti uniformi “seconda pelle”.
Stefania Vitulli – Il Giornale

In scena umani e androidi in cerca di salvezza.

Uno spettacolo ambientato in un mondo distopico che fa riflettere sull’importanza dei ricordi, delle emozioni e sul coraggio che occorre per ricominciare daccapo.

Si può cancellare la memoria, estirparla con tutti i suoi ricordi?

"La verità è che, anche quando i ricordi scompaiono, le emozioni rimangono, e con quelle emozioni prima o poi dobbiamo fare i conti."

Il drammaturgo Edoardo Erba e il giovane regista Michele Mangini, nel tentativo di rispondere a questa domanda, ci trasportano in un futuro distopico.

Siamo nel 2120 e l’umanità è divisa in due classi. Da una parte c’è la moltitudine che vive ammassata nelle poche aree abitabili di un pianeta ormai desertificato. Dall’altra i membri della classe agiata, gli Aumentati, con DNA ottimizzato, fisico perfetto, cervello super performante, che perseguono un ideale di bellezza e di bontà esclusivamente riservato alla loro casta ma, difettando di esperienze vive, ricorrono al trapianto di memorie altrui. Per denaro e per sottrarsi ai ricordi di un passato doloroso, la protagonista Cruz ha deciso di privarsi della sua memoria. I suoi ricordi svaniscono, ma quella sensazione di vuoto, rabbia, solitudine, può davvero scomparire?


CRUZ: Guardo gli altri, e chi vedo? Umani che si fingono robot, Aumentati che comprano gli organi di altri umani. Che tolgono loro la memoria. (…) Come siamo arrivati fin qui? Come possiamo essere stati così stupidi, visto che eravamo in tanti?

Nei panni di Cruz, torna sul palco del Parenti Marina Rocco, già attrice de Gli innamorati, Ondine e Casa di bambola, diretti da Andrée Ruth Shammah e di Amleto2, La sirenetta e Don Giovanni di Filippo Timi. Al cinema ha recitato in Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana, La giusta distanza di Carlo Mazzacurati, Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto, Notti magiche di Virzì, per citarne alcuni.


Il testo è di Edoardo Erba, drammaturgo tra i più noti e affermati in Italia. Nelle sue trame si intrecciano molteplici sfumature, dalla leggerezza della commedia alla suspence del giallo criminale. Maratona di New York (1993) è il suo lavoro teatrale più conosciuto, tradotto in diciassette lingue e rappresentato in tutto il mondo.


Marina Rocco esprime, con struggente convinzione, la ricerca impossibile dei propri ricordi, con la forza di un replicante bladerunneriano. [...] Ogni gesto, ogni fonema, ogni intenzione portano la traccia mnestica, il profumo di un disperante, lancinante bisogno d’amore, e di trovare uno specchio vivente che sappia ricambiare i suoi abbracci.
Danilo Caravà – Milanoteatri.it
La regia: Michele Mangini Con R.A.M. il giovane regista Michele Mangini fa il suo esordio nel teatro di prosa, dopo il cortometraggio Onora il Padre e la Madre – in nomination come Best Short Movie e Best Direction al Napoli Film Festival e al Social World Film Festival – e la regia dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, per la stagione 2018 del Teatro Verdi di Salerno.

Ai tempismi che, talvolta sbagliati, non ci hanno permesso di restituire una versione fedele di noi stessi. A chi non c’è questa sera.

Ci sono stati, per tutti, momenti nella vita in cui ci siamo sentiti ingabbiati come Cruz, in cui abbiamo forse pensato quanto sarebbe bello poter rimuovere quei ricordi così dolorosi che non ci lasciavano spazio.

Con Edoardo abbiamo pensato cosa sarebbe potuto succedere se quest’opzione fosse stata possibile e facile, come togliere un’appendice: un giorno di day hospital e via, verso una nuova vita. Ma la verità è che anche quando i ricordi scompaiono, anche quando riusciamo a metterli da parte, le emozioni rimangono, e con quelle emozioni prima o poi dobbiamo fare i conti.

Questo, è uno spettacolo sulle seconde possibilità. Parla di come ci si sente quando nessuno può capirci, quando ci sentiamo ai margini di un mondo di cui fatichiamo a comprendere le logiche. Parla dei legami, di quanto siano necessari per sentirci vivi. Parla del perdono e di come sia fondamentale saper perdonare sé stessi e gli altri per gli errori che commettiamo. Perché gli errori li commettono tutti. Parla della gentilezza come elemento indispensabile della nostra umanità. Ma sono una brutta bestia, le seconde possibilità. Vanno guadagnate, sedotte, combattute, bisogna mettersi in gioco ed essere pronti a cambiare, bisogna far pace con gli errori degli altri e poi con i nostri. Soprattutto bisogna amarle, le seconde possibilità, perché sono eteree come la polvere di una stella che brucia a contatto con l’atmosfera, che uno non fa in tempo a dire “ma guarda…” ed è già svanita. Quando si afferrano, però, sono in grado di scagliarci lontano, oltre i nostri limiti e la persona che siamo. Ci trasformano. Donandoci quell’umanità che ci permette di accettare il nostro passato e di andare oltre il presente, in un futuro forse ancora più arduo, ma che riesce a farci meno paura. Perché, è questo il segreto, nelle seconde possibilità non siamo mai soli.


C’è arte contemporanea sul palco: Michele Iodice

La scena è una installazione dell’artista napoletano Michele Iodice.
L’utilizzo di materiali insoliti nella scenografia vuole rendere lo spazio scenico il più astratto possibile. La texture dell’installazione è composta infatti da serbatoi in acciaio agganciati tra loro. Il risultato è una parete modulata di elementi creati in catena di montaggio. Il singolo serbatoio appare come una delle pieghe della corteccia cerebrale, metafora dell’appiattimento della diversità e della frammentazione sociale. Infatti, in questo futuro distopico in cui certi valori sono, forse, andati perduti, l’unicità di ogni essere umano, l’individuo, ha valore solo in un’ottica di profitto economico. L’utilizzo dei serbatoi di acciaio però non ha solo una funzione metaforica, funge anche da parete proiettiva di immagini, che appaiono distorte ed evanescenti, in modo tale da creare nello spettatore un senso di disorientamento e di velata solitudine. La luce è protagonista ed è elemento principe della scenografia, accarezza la materia riflettente regolando l’intensità, accentuandola e deformandola.


I costumi di scena sono uniformi che fungono da seconda pelle, riflettono la condizione omologata degli interpreti.

L’unica possibilità di diversificazione avviene attraverso i singoli indumenti riciclati: una casualità estetica non coordinata che crea un’apparente identità.”