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Il racconto dell’ancella

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Il racconto dell’ancella

Viola Graziosi incanta il pubblico con un monologo drammatico e di sorprendente attualità, tratto dal romanzo del 1985 di Margaret Atwood, tornato alla ribalta dopo il grande successo della serie televisiva The Handmaid’s Tale.

Una rappresentazione estrema e paradossale di un futuro distopico, in cui le donne sono sorvegliate, dominate da rigide regole imposte dagli uomini e divise in categorie secondo il colore dei vestiti: in azzurro le Mogli dei Comandanti, inerti e privilegiate; in verde le Marte, anziane sterili che si dedicano ai servizi domestici; in marrone le Zie, guardiane e sorveglianti; e in rosso le Ancelle, le uniche in grado di procreare e dunque sottomesse per essere fecondate. Nessuna può disobbedire, pena la morte o la deportazione.

In scena la confessione di un’ancella che porta in sé l’urgenza di una domanda che brucia. Il suo è un racconto rivolto proprio a noi, donne e uomini di questa società contemporanea. L’ancella ci interroga sulla libertà, in particolare su quelle delle donne. E soprattutto su ciò che ne facciamo, sulla nostra responsabilità. Diventa un simbolo, ma anche l’incubo di un futuro prossimo possibile, un monito che ci tiene in guardia.

Viola Graziosi è abile nel tenere lo spettatore incollato alla poltrona, lo coinvolge, lo pungola, quasi a volerne provocare la reazione. Lo chiama in causa con domande retoriche che paiono vere, chiede a gran voce cosa sia la Libertà, cosa l’Amore; si rivolge alla platea a volto scoperto o sotto le grandi falde del bianco cappello che indossa, un cappello così ingombrante da impedire quasi di vedere e di essere vista: la divisa dell’ancella, al tempo stesso protezione e gabbia. Le musiche di Riccardo Amorese giocano un ruolo essenziale, disturbanti come sono, con il volume alto che induce a un ascolto attentissimo.

– tg24.sky.it


Viola Graziosi con impeccabile stile, algida e nostalgica, si veste, si spoglia, si sottopone al rito fecondatore con la grazia ferita di una giovane donna che ha perduto il suo ruolo sociale per transitare in una zona deserta di sentimenti, di sogni, di speranze.

– Anna Di Mauro, Il mestiere del critico