di Katharina Volckmer
© Éditions Grasset & Fasquelle, 2021
traduzione italiana Chiara Spaziani
pubblicata da © La nave di Teseo editore, 2021
adattamento Fabio Cherstich, Katharina Volckmer
da un’idea di Andrée Ruth Shammah
regia, spazio scenico Fabio Cherstich
con Marta Pizzigallo
e con Francesco Maisetti e Giuseppe Sigalini
luci Oscar Frosio
musiche originali Luca Maria Baldini
assistente alla regia Diletta Ferruzzi
macchinista Marco Pirola
fonico Emanuele Martina
elettricista Luca Asioli
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
si ringrazia Artemide per la luce, nel ricordo di Ernesto Gismondi
produzione Teatro Franco Parenti
Domina la scena Marta Pizzigallo che racconta, con voce e corpo, il disagio emotivo ed esistenziale di un personaggio prigioniero degli schemi di una società bigotta e conservatrice, intrappolata dai troppi retaggi culturali.
Un flusso di coscienza torrenziale e provocatorio, ma anche atrocemente divertente e lucido, che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo alla descrizione di incontri di sesso occasionale, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna. In scena la solitudine umana, un coming out autentico, delirante e di grande intensità che tiene incollato il pubblico.
Un monologo che trasuda fisicità, dove la voce dell’attrice e il suo corpo si fanno veicolo potente per una ricerca di sé che porta a un esito spiazzante.
connessiallopera.it
Immensa Pizzigallo e straordinario l’adattamento di Cherstich: va in scena la solitudine umana, perché «siamo tutti nati con il cuore infranto».
– Francesca Duranti, Umbria24
Provocatoria, spudorata e aggressiva nel personaggio che si interroga sul suo gender, rivendica una libertà che appare impossibile: quella degli ebrei al tempo del nazismo e quella di chi oggi vuole manifestare la propria identità di genere. Una confessione torrenziale, un delirio fisico e verbale che, al cospetto dell’analista impassibile, mette a nudo la falsità del politcally correct. Un’accorata denuncia che non lascia spazio alla pietà, resta solo la paura e lo sfogo di un pianto liberatorio: lucida follia, per porre fine all’industria della felicità.
– Emilia Costantini, Corriere della Sera
È scomodo fin dal titolo, imbarazzante anche solo a pronunciarlo. Eppure L’appuntamento, la storia di un cazzo ebreo tutto è tranne che un racconto volgare o pornografico. Bestseller d’esordio della scrittrice tedesca Katharina Volckmer, è una storia bella e profonda sul tema dell’identità, fisica, del corpo, del genere ma anche culturale, politica. Uno stream of consciousness di un’ora e un quarto, dentro una macchina scenica che è un po’ un lettino da ginecologo, una panca, la poltrona dello psicanalista e con il corpo filtrato attraverso una lente che mostra il percorso mentale del cambiamento di sesso della protagonista, il caleidoscopio di pensieri che invadono il suo cuore più intimo ma anche quello degli spettatori che si confrontano con una storia che conoscono come quella del razzismo.
– Anna Bandettini, la Repubblica
Un cazzo ebreo è il libro più esplosivo del 2021. – Rolling Stone
Nata in Germania nel 1987, Katharina Volckmer ha scritto e pubblicato in inglese. A tal proposito afferma: «Mi ha permesso di prendermi più libertà. Anche Freud se doveva dire qualcosa di sconveniente usava il francese».
Torrenziale, provocatorio, a tratti insopportabile ma anche atrocemente divertente, lucido e delirante allo stesso tempo, un testo che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo, alla descrizione di incontri di sesso occasionale nei bagni pubblici, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna.
Un cazzo ebreo è un monologo sull’identità tutt’altro che consolatorio: la voce narrante non sa dove sta andando, non segue un arco che dall’autocoscienza la porterà a un lieto fine, a un dipanamento del suo groviglio. Sa solo che deve continuare a frantumare, a fare a pezzi sempre più piccoli la propria identità di femmina e di tedesca. Sia Volckmer che il suo personaggio hanno una sola priorità: rompere il silenzio. E il silenzio dell’analista è il muro contro cui testardamente, dolorosamente, la protagonista continua a sbattere la testa.
Quella che i tedeschi chiamano Vergangenheitsbewältigung (“superamento del passato”) si è trasformata in un vuoto plumbeo: il passato nazista è stato semplicemente rimosso in nome di un antirazzismo untuoso e di facciata che smussa o nega qualunque differenza: «trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza», ricorda la protagonista, «e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare de-nazificati e profondamente riguardosi. Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualunque circostanza, e pronti a negare qualsiasi differenza. (…) Eppure non abbiamo mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né abbiamo permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino a commemorare l’Olocausto».
La messa in discussione della propria appartenenza alla cultura tedesca diventa anche una radicale messa in discussione del proprio essere nata femmina: «una volta imparato a pensare con la mia testa, ho cominciato ad andare nei bagni dei maschi», spiega all’analista. E il cesso pubblico diventa per lei, in un comico ribaltamento delle polemiche statunitensi sull’utilizzo dei bagni femminili per le persone trans, un luogo di scoperta di sé.
Il regista Fabio Cherstich ha creato lo spettacolo con la collaborazione della stessa Katharina Volckmer: «la donna e il dottor Seligman sono all’interno di uno spazio mentale» spiega nelle sue note di regia: «non lo studio di un medico ma un dispositivo visivo in cui attraverso l’utilizzo di lenti traslucide, vetri opalescenti, filtri fotografici, il corpo della protagonista e la sua immagine appaiono al pubblico in una forma mutevole e continuamente trasformabile, fluida e misteriosa».
Cherstich quindi, alla dimensione della parola ha aggiunto quella visiva, per rendere plastica l’esigenza della protagonista di trasformarsi, di diventare altro da sé, di lasciarsi alle spalle quella che era. Ha in mente l’arte sporca, umorale e confessionale dell’artista britannica Tracey Emin, il cui flusso di coscienza visivo è costellato di Kleenex appallottolati, di letti disfatti, di preservativi usati, di scarabocchi fatti soprappensiero. O le performance medico-rituali dell’artista francese ORLAN, che ha fatto della chirurgia estetica estrema la sua poetica.
Cherstich non vuole solo farci sentire la voce della protagonista ma vuole anche farci vedere cosa si sta affastellando e formando nella sua immaginazione: ci chiede di diventare testimoni di un processo di distruzione di sé che è anche un inno alla complessità e alla fluidità di quello che siamo, di quello che potremmo osare essere e di quello che saremo: «Facciamoci oro, dottor Seligman. Cambiamo forma nei secoli, ma senza scomparire».