Buoni a nulla. Intervista a Lorenzo Ponte
di Federico Demitry
La Sala Tre del Teatro Franco Parenti ospita lo spettacolo Buoni a nulla, il risultato di un’indagine che porta in scena l’altra faccia di Milano, quella fragile, quella disgraziatamente umana e rimossa dalla narrazione progressista, allegoria della marginalità di molti tessuti cittadini. Di seguito la nostra intervista con l’autore e regista Lorenzo Ponte.
Quando e da dove nasce il progetto Buoni a nulla. Che esigenza racconta?
Il progetto nasce nel 2019. In questo testo, che è il mio primo, volevo ragionare sul rapporto tra individuo e società capitalistica. Il titolo viene da un articolo di Mark Fisher, Good for nothing. Sono partito dunque da testi generazionali, autoriflessivi, per lo più di giovani borghesi. Ho sentito però che c’era una tendenza ad autoripiegarsi, a finire in una sorta di lamento autocompiaciuto che reprimeva qualsiasi spinta di cambiamento. Ho cercato quindi di scavalcare questa tendenza autoassolutoria che non mi rappresentava, per parlare di disuguaglianza, di marginalizzazione. Allora, contro la tendenza a parlare di sé, ho deciso di mettermi in una situazione totalmente estranea. Quindi il tema è il rapporto tra l’individuo e la società, che in Buoni a nulla si concretizza in quella che è l’incarnazione dell’esclusione sociale: la persona senza dimora. Per questo abbiamo fatto un lungo percorso di ricerca e di affiancamento con associazioni di volontariato che ci hanno aiutato a comprendere questo mondo. Ad esempio Drago verde, Educativa di Strada, fio.PSD, una rete che coordina varie associazioni su diversi territori e città. Fondamentale poi, a livello artistico, è stato l’incontro con il teatro di narrazione di Giuliana Musso.
C’era già Milano al centro di questo progetto?
No, il progetto nasceva da testi come quello di Fisher, che è londinese, o Città Sola di Olivia Laing, che parla di New York. Abbiamo poi provato ad allargare il discorso sulla marginalità, a metterci nei panni dell’altro anche per ritrovare un contatto con noi stessi. Chi sta in strada ci arriva da presupposti differenti, non è soltanto un discorso di classi sociali. Da questo punto di vista, Milano è una città fragile e questo era fortissimo già prima del Covid, quando il progetto è iniziato. Per me questo spettacolo è diventato quindi anche un modo per fare pace con quello che vuol dire sentirsi a casa a Milano. Ma comunque le città, in un modo o nell’altro, sono dei punti di riferimento. Una critica alla città è una critica, o quantomeno un’analisi, del vivere collettivo.
Come avete costruito i profili dei tre personaggi e come si legano le loro storie?
È una sorta di triangolo. Alle basi abbiamo due possibili approcci a una figura medio borghese: quella che tende alla vetta, alla massima integrazione, il bocconiano, e quella che vuole andare a mettere le mani nel problema, testimoniare la marginalità, cioè la giornalista. Sono comunque figure che nascono dalla ricerca. Ad esempio, Pane Quotidiano è di fianco al nuovo campus della Bocconi. Incarna bene il bipolarismo di Milano. La volontaria, dall’altro lato, riporta in scena il percorso stesso di ricerca. Sono quasi delle allegorie più che dei personaggi. La terza figura invece non nasce come personaggio ma è una sorta di narratore, è una voce. Non si può dire che sia un senza dimora, perché non è un personaggio che vuole rappresentare qualcosa di realistico, è totalmente di finzione.
Come lo possiamo definire?
È un fool, un giullare, un personaggio legato allo spazio teatrale: l’anima dello spettacolo. Nello spettacolo è un profeta, una figura eterea, che c’è e non c’è. Ha la funzione non tanto di raccontare la vita dei senza dimora, ma quanto di mettere in discussione il pubblico. Anche lui è una sintesi, un distillato di tutto ciò che abbiamo sentito dalle persone che incontravamo, ma anche delle contraddizioni interne che provavamo.
Come bisogna leggere allora lo sfondamento regolare della quarta parete?
In questo spettacolo ho deciso di andare nella direzione di un teatro di narrazione, un teatro civile, quindi è una forma ibrida: sono dei personaggi, in uno spazio definito come quello della pensilina, che però allo stesso tempo dialogano col pubblico. Lo sfondamento è il presupposto drammaturgico. I personaggi non parlano in situazione, ma raccontano delle storie. L’attore-narratore non si preoccupa di rappresentare: ti parla. Il fatto che il fool rompa qualsiasi tipo di distanza col pubblico, poi, riprende una dinamica tipica della strada, in cui si azzerano le barriere della buona educazione.
Qual è il messaggio che si vuole lasciare allo spettatore nel finale?
Il discorso che facciamo è che c’è in gioco la vita, in questo meccanismo di esclusione. La strada è una condanna a morte. Ha un numero di morti immenso. Il fatto che non ci sia un minimo di dignità o di spazio di protezione assicurato all’umano, al vivente, ci mostra che viviamo in una società punitiva. Quindi è uno spettacolo con un risvolto sicuramente sociale. Poi c’è anche un altro discorso, che è quello di provare a fare pace con quella parte di ultimità, di entrarvi in contatto, di riconoscerla.