Dromoscopie e metamorfosi nella ricerca teatrale: Intervista a Lorenzo Gleijeses.
a cura di Federico Demitry
Leggendo i diari di Franz Kafka, si potrà incontrare questo appunto: «Dormito, destato, dormito, destato, vita miserabile». Una frase che non solo illumina il lavoro dello scrittore boemo, riassumendo quella ripetizione senza differenza che spalanca l’insensatezza e la tragicità nel quotidiano, ma che testimonia l’autobiografismo portante nelle sue opere. Queste stesse due componenti emergono nello spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa di Lorenzo Gleijeses, portato in scena al Teatro Franco Parenti. Un lavoro di ricerca lungo e complesso, di cui Gleijeses rivela la genesi e i principi nell’intervista che riportiamo di seguito, svelando un viaggio che parte dalla ricerca sul corpo e sul movimento per approdare all’Odin Teatret di Eugenio Barba, passando per il surrealismo, l’auto-fiction (tendenza che riscontriamo sempre maggiormente nel teatro contemporaneo) e la filosofia di Paul Virilio.
Come e quando nasce Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa?
Ho parlato per la prima volta di questo progetto a Eugenio Barba nel 2013, a Gallipoli. Dopodiché ho cominciato a lavorare con Michele Di Stefano. Inizialmente non avevo in mente uno spettacolo, ma un progetto pedagogico basato sul procedimento surrealista del cadavre exquis. L’idea era quella di produrre del materiale scenico da far rilavorare a diversi maestri, proprio come facevano i poeti surrealisti, per cui il componimento finale era frutto di un lavoro collettivo, senza che si potesse vedere dove finiva la mano di uno e iniziava quella dell’altro. Il primo nucleo nasce dunque con degli oggetti coreografici, che con Michele abbiamo definito “preghiere”, e che sono una sequenza di quattro, cinque, sei azioni fisiche al massimo. Questo materiale l’ho portato nuovamente in Danimarca ad Eugenio nel 2015, ed è lui che ha dato la struttura di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa. Dopodiché ho continuato a lavorare insieme a Mirto Baliani sulle direzioni di ricerca proposte da lui.
Con Eugenio Barba e Julia Varley co-firmi infatti drammaturgia e regia. Quanto c’è del lavoro sull’antropologia teatrale di Barba e dell’Odin Teatret in questo spettacolo?
Con questi oggetti coreografici io ho lavorato con Eugenio e Julia alla creazione di Una giornata qualunque, e gli interventi successivi di altri maestri sono stati a supporto di questa visione. Ho continuato però anche il cadavre exquis sugli stessi oggetti coreografici parallelamente e ne è nato un altro spettacolo, molto diverso, con la regia di Luigi De Angelis, Corcovado. Nel Gregorio Samsa la direzione è quella di Barba, che è la voce del maestro che si sente in scena.
Si può definire un lavoro di teatrodanza?
Il punto di partenza è sempre il lavoro fisico sul corpo, ma non lo definirei teatrodanza, è teatro di ricerca. Ad esempio il mio Gregorio Samsa ha continuato a evolvere insieme all’ISTA, l’International School of Anthropology, ed è diventato ancora altro in Anastasis, progetto portato in scena per Teatrum Mundi alle Olimpiadi del teatro di Budapest nel 2023. Lì le azioni ossessive, i movimenti di Gregorio si inseriscono nella ricerca di Barba sull’antropologia teatrale. Per dare un’idea, ero in scena insieme a 70 maestri provenienti dalle tradizioni teatrali di tutto il mondo: dal teatro Bunraku giapponese al Kathakali indiano alla danza balinese, solo per citarne alcuni.
Nel merito di quello che vediamo in scena in Una giornata qualunque e rispetto alla Metamorfosi di Kafka, chi è il tuo Gregorio Samsa?
Non ci interessava fare una riduzione della Metamorfosi, piuttosto un lavoro sull’universo di Kafka. Infatti nello spettacolo entrano materiali anche dalla lettera al padre, dal Castello, dal Processo. Il mio Gregorio è quindi una fusione tra questo universo e alcuni tratti privati, autobiografici. Per questo l’alienazione di Gregorio è quella di un danzatore che nel perfezionismo ossessivo, nella ricerca spasmodica della perfezione artistica, arriva a perdere le coordinate essenziali del vivere umano. La sua vicenda è frutto di un processo dromoscopico, così come ha definito dromoscopia il filosofo Paul Virilio.
Ossia? Cos’è la dromoscopia e come rientra in questo progetto?
La dromoscopia è un concetto chiave del lavoro. Come spiega Virilio e come dice Gregorio nello spettacolo, è quella sensazione di spaesamento che si prova ad esempio quando si è su un treno e non si capisce se a muoversi sia il nostro treno o quello di fianco. È una sensazione fisica molto chiara e molto comune alle nostre esperienze. Vuol dire perdere le coordinate del movimento. Una sensazione fisica che per Virilio esemplifica la perdita di lucidità dovuta alla velocità contemporanea, una metafora della società dello spettacolo o meglio dei frutti della società dello spettacolo, sovrabbondante di immagini che in realtà spesso ci confondono, o ci danno delle false credenze. Gregorio in sostanza è vittima di un processo di questo tipo. La sua perdita di lucidità è una perdita di coordinate tra il mondo interiore e quello esteriore, la vita privata e il lavoro. Convinto di muoversi verso la perfezione, in realtà si muove nella direzione opposta.