La drammaturgie nel Teatro dei Gordi: intervista a Giulia Tollis
di Anna Farina
Gli spettacoli della compagnia Teatro dei Gordi si reggono su una drammaturgia fatta di movimenti, maschere, suoni, in cui le sporadiche parole pronunciate da attori e attrici non sono che effetti paratestuali. Per approfondire il processo di creazione di queste opere, ho avuto l’occasione di poter parlare con la dramaturg dei Gordi, Giulia Tollis.
Come nascono i vostri spettacoli e qual è il tuo ruolo nel processo produttivo?
L’orizzonte creativo iniziale viene sempre ispirato e proposto da Riccardo Pippa, regista della nostra compagnia. Spesso si tratta di un’immagine legata a un luogo che, grazie al confronto con la scenografa Anna Maddalena Cingi, si fa sintesi dell’ambientazione in cui è calata la drammaturgia, come la camera da letto di Visite e il bagno di Pandora. In particolare, Visite nasce da un testo di Riccardo ideato in occasione di un laboratorio alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, come riscrittura del mito ovidiano di Filemone e Bauci in cui i due vecchi protagonisti non si trasformano in alberi, ma in corpi anziani legati a cannule e flebo.
Dall’evocazione di questi nuclei iniziali di interesse si avvia una fase di confronto attivo e aperto con tutta la compagnia, con una raccolta di esperienze personali e racconti che emergono intorno all’idea. La genesi, quindi, è sempre condivisa, ma arriva il momento in cui si operano delle scelte per dare senso e forma agli spettacoli. Queste scelte possono avvenire, ad esempio, tramite un lavoro attoriale di improvvisazione guidata a partire da un canovaccio di scene: io e Riccardo ci troviamo a sintetizzare delle didascalie di azioni che vengono attraversate in scena dagli attori e dalle attrici della compagnia. Qui entra in gioco la loro autorialità, e le loro proposte servono a definire l’arco narrativo o la composizione drammaturgica.
Proprio per questo difendiamo la necessità di lunghi tempi di produzione: è ciò che serve per ascoltare ciascuno di noi, fare delle scelte, verificarle, capire cosa funziona e cosa no, e ricominciare. Poi ci sono le maschere: anch’esse, soprattutto in Visite, hanno guidato lo sviluppo del racconto, dandoci l’occasione di scoprire le possibilità dei personaggi e quindi hanno contribuito ampiamente a definire la natura della drammaturgia dello spettacolo.
Il processo di selezione che plasma la drammaturgia risulta, con evidenza, essere molto preciso: sono rimasta colpita dalla vostra capacità di dare vita alle azioni senza elementi narrativi superflui.
Questo approccio deriva proprio dalla scuola da cui io e Riccardo proveniamo, quella della prima dramaturg italiana, Renata Molinari, che ci ha educati a uno sguardo per azioni. Anche gli attori della compagnia, la cui autorialità nella definizione del racconto è fondamentale, hanno lavorato con lei apprendendo la precisione del gesto che diventa senso e significato.
A proposito di questo, cosa vuol dire essere dramaturg, specialmente in una compagnia come Teatro dei Gordi?
Questa figura in Italia è ancora un “animale esotico”. Per me la postura del dramaturg è quella di chi si affianca al lavoro di creazione a un passo di distanza. Ciò che ho appreso maggiormente durante il mio periodo di approfondimento su questo ruolo in Germania è stata la disposizione a porre domande. Il dramaturg, infatti, collabora con il regista, con la compagnia e le maestranze come memoria esterna del processo di produzione di uno spettacolo, e ha la responsabilità, facendo un passo indietro rispetto al proprio gusto estetico, di ricordare al regista cosa egli stesso cerca nella messa in scena, spronandolo a discernere il necessario dal non necessario. Poi, come accade per me con i Gordi, si possono portare proposte e modifiche, rimanendo pronti a capire come tradurre al meglio sulla scena i cambi di direzione rispetto alle premesse dello spettacolo. Il territorio d’azione ideale del dramaturg, quindi, è quello del confronto. Perciò, nella mia esperienza, questa figura può esistere solo in realtà dove i ruoli sono definiti ma il potere nel processo di creazione è orizzontale.
È evidente la presenza nella vostra compagnia di questa figura liminare che descrivi e incarni, qualcuno che tenga insieme, con coerenza, la marea del processo creativo in spettacoli privi quasi del tutto di un mezzo familiare come la parola.
In realtà, proprio perché non ci sono parole, la responsabilità della drammaturgia viene assunta da tutti. Diventa di chi è in scena, della regia, della scenografa, della costumista, del light designer… Tutti devono concorrere alla coerenza drammaturgica proprio perché essa è affidata non a un testo, ma allo spettacolo in sé.