di Alice Strazzi
Lutto, perdita e legami familiari sono alcuni degli assi portanti della tragedia di Euripide Le troiane. Il drammaturgo ateniese pone al centro la drammatica realtà vissuta dalle donne troiane al termine della guerra: il loro destino è quello di essere portate via dai Greci come schiave e bottino di guerra, lasciando così per sempre la patria ormai distrutta e spezzando definitivamente il forte legame esistente tra loro.
Questi aspetti costitutivi della tragedia euripidea vengono evidenziati in maniera significativa nell’adattamento ospitato nel mese di febbraio al Teatro Franco Parenti. La traduzione di Angela Demattè e la regia di Andrea Chiodi rileggono queste figure tragiche evidenziando la loro profonda, e sempre sorprendente, capacità di parlare al pubblico contemporaneo con parole dirette, strazianti, inequivocabili.
Elisabetta Pozzi, presente in scena nel ruolo di Ecuba, ha sempre instaurato un legame profondo e rilevante con il teatro greco, interpretando, nel corso della sua carriera, molte eroine tragiche come Cassandra, Medea ed Elettra. Incarna ora la moglie di Priamo, evidenziando significativamente la disperata sofferenza di questa donna, madre e regina, travolta dagli eventi catastrofici che il destino le ha riservato.
Ho avuto modo di confrontarmi con Elisabetta Pozzi per approfondire alcuni aspetti fondamentali del suo personaggio in relazione al pubblico e alle altre figure presenti in scena, mettendo a fuoco la tragica bellezza delle parole senza tempo di Euripide.
La figura di Ecuba evoca nella mente dello spettatore alcune delle battute pronunciate da Amleto nel secondo atto dell’omonima tragedia shakespeariana: “[…] Che cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, perché egli possa piangere così?”. Non è un caso che Shakespeare scelga proprio questo personaggio per evidenziare come, nonostante il suo essere una figura mitica e antica, sia in grado di suscitare emozioni così forti. Quindi, quali sono gli elementi capaci di rendere uniche Ecuba e la tragedia stessa de Le troiane?
Il testo de Le troiane viene scritto da Euripide in un momento critico per la società ateniese che stava perdendo la sua grande predominanza e centralità all’interno del panorama delle poleis greche. In questo periodo, perciò, il drammaturgo attico aveva delineato una concezione del mondo totalmente disperata e senza vie d’uscita, non vedeva il futuro e non riusciva a collocarsi nel contesto storico. Euripide avvertiva, rispetto a sé stesso e a tutti gli Ateniesi, una perdita di controllo e di identità. Questo stato d’animo relativo a una percezione catastrofica della realtà è stato trasferito dall’autore nelle figure del mito rappresentate ne Le troiane. Proprio per questo collegamento con la realtà concreta e personale del drammaturgo, i personaggi descritti sono tuttora estremamente commuoventi, capaci di mostrare la loro fragilità, impotenza e il loro percepire un’assenza di futuro, un senso di fine definitiva della loro civiltà: con la morte dell’ultimo nato si conclude un’epoca. Forse proprio grazie alla sincerità e profondità di sentimenti di cui le protagoniste de Le troiane sono portatrici si capisce perché Amleto decida di parlare di Ecuba e della sua capacità di commuovere. Questa associazione di senso tra la storia della distruzione del popolo troiano e il momento storico di forte decadenza vissuto da Atene riporta a una dimensione estremamente concreta proprio perché realmente vissuta. Perciò, quando si delineano nel corso della Storia periodi gravi e catastrofici come quello che stiamo vivendo, quando sembra che tutto sia finito, emerge ancora vivo quel senso di disperazione di fronte a qualcosa di incontrollabile. Alcuni passi della tragedia sembrano davvero scritti durante la nostra epoca: il senso di perdita di identità, di realtà descritto da Euripide risulta vivo e scottante per molte persone oggi. Questa tragedia è capace di toccare direttamente il pubblico proprio perché richiama alcune situazioni che stanno accadendo in questo momento. Le antiche parole greche si mescolano con quelle scritte da Angela Demattè per alcuni personaggi, in particolare per Cassandra, necessarie per ricollocare la tragedia ai giorni nostri in modo più diretto e più chiaro.
Durante lo spettacolo viene pronunciata una battuta significativa: “Questo siamo noi ora, resti di parole”. Cosa comunicano e cosa rappresentano questi “resti di parole” di cui si parla?
Questa battuta è stata aggiunta da Angela Demattè a conclusione del dialogo tra Andromaca ed Ecuba: le due donne si alternano nel rivendicare, ciascuna per sé, la condizione di maggiore sfortuna e disperazione. La battuta è necessaria per sottolineare come nella tragedia di Euripide fosse ancora presente la possibilità, attraverso la parola, il lamento, il grido, di comunicare il senso di distruzione e di dolore. Adesso però, per noi oggi, tutto ciò risulta inattuabile, rimangono appunto solo “resti di parole”: parole che possono essere dette ma non hanno più presa concreta sul tempo in cui viviamo, abbiamo perso il linguaggio necessario per affrontare la realtà, perciò non possono che rimanere solo brandelli di queste. Rispetto al nostro mondo forse ci mancano percezione e lucidità sufficienti per parlare di questo momento e di ciò che accade. Questi “resti parole” sono quindi le uniche parole vere che possiamo pronunciare.
Nelle Troiane emerge significativamente, in particolare legato alla figura di Ecuba, il rapporto madre-figlie. Cosa dà forma a questo legame?
Innanzitutto, è fondamentale notare come questo legame sia ritratto attraverso un punto di vista totalmente femminile: se in scena ci fossero stati gli uomini troiani, i discorsi sarebbero stati completamente diversi. La grandezza di Euripide emerge attraverso la sua capacità di rappresentare argomentazioni che soltanto le donne avrebbero espresso in questi termini. Le figure femminili di questa tragedia non sono semplici personaggi, ma sono veri e propri monumenti viventi: Andromaca, ad esempio, parla del suo rapporto con Ettore con parole estremamente toccanti, capaci di raggiungere un livello di profondità estrema, sono racconti di una tenerezza straordinaria. Ecuba, d’altra parte, reagisce al fatto che sua figlia Cassandra, vergine consacrata ad Apollo, debba andare in sposa ad Agamennone, mostrando il lato assolutamente materno della sua sofferenza, il quale fuoriesce anche quando si racconta del destino di Polissena. I rapporti che legano Ecuba alle sue figlie mostrano la materializzazione del dolore provato dal popolo troiano e sono il riflesso di un mondo ormai giunto alla fine.