L’incatenamento del corpo tra nazismo e identità di genere. Intervista a Marta Pizzigallo
di Lorenzo Cazzulani
Nel 1934 Emmanuel Levinas scrisse un breve testo, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo. La sostanza dell’opera può così essere riassunta: l’ideologia nazista ha elaborato un’idea di uomo in controtendenza con la storia occidentale; se l’Occidente si è da sempre ispirato a un progressivo aumento di libertà e riconoscimento etico-politico, il nazismo pensa l’essere umano “fatalmente inchiodato” al proprio corpo. Non ci può essere liberazione, la condizione biologica nella quale un individuo nasce, secondo l’ideologia nazista, è vincolate.
Il testo scritto da Katharina Volckmer, di cui L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo è l’adattamento teatrale, mescola l’incatenamento biologico a cui il nazifascismo riduce il soggetto e il senso di costrizione che nasce dal sentirsi chiusi in un corpo che non si vive come proprio. La storia racconta le vicende di una donna – interpretata da Marta Pizzigallo – che vive tragicamente il proprio essere tale e che inizia un percorso di transizione verso il sesso maschile.
L’aspetto negativo dell’attuale contesto sociale e politico ha due volti: da una parte, l’esistenza di un pezzo di società che rema contro l’idea della fluidità del genere; dall’altra, invece, si assiste all’ascesa di organizzazioni politiche di chiara eco fascista, spesso nemmeno troppo velata. Questo contesto ha avuto un peso rilevante nella scelta di portare in scena questo testo di Katharina Volckmer? Quale è stata la genesi dello spettacolo?
Il testo ha avuto un enorme successo, un vero caso editoriale del 2021, dovuto anche al contesto politico e culturale nel quale viviamo, con venti estremisti che soffiano ovunque. Il fatto che il libro avesse una valenza molto attuale è stato di sicuro fondamentale nella scelta di portarlo in scena. È merito della direttrice del Teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah, che lo ha adocchiato per prima. Successivamente io ho incontrato il regista, Fabio Cherstich, e abbiamo iniziato a lavorare. L’esperimento era già stato fatto in Austria, non siamo i primi ad aver proposto l’adattamento teatrale. Nonostante l’attualità delle tematiche, comunque, la forza del testo è avere una ricchezza di temi che oltrepassa il nazismo e l’identità di genere.
Quali idee si è fatta riguardo al contesto politico e culturale accennato? La situazione è così drammatica come sembra oppure può essere letta in termini più tolleranti riguardo a forme di comportamenti meno tradizionali?
Non credo ci sia margine di smorzamento. Una parte di società fatica ancora ad accettare modi di vivere e di pensare l’essere umano diversi da quello tradizionale. C’è molta confusione su questo argomento. Ciò che non si comprende si tende a pensarlo come pericoloso, quando ovviamente così non è. Siamo vittime di una visione semplicistica delle cose. Un pezzo di società tende a banalizzare queste tematiche, ma c’è una complessità da rispettare, e su questa dobbiamo interrogarci. Il testo aiuta a decostruire alcuni paradigmi che diamo per assodati.
Quali sono gli elementi che hanno spinto l’autrice del testo a legare così profondamente il disagio di genere e l’Olocausto?
Sono di certo i due binari focali della narrazione. Questa è una storia di transizione: la protagonista vuole “ripararsi” dalla costrizione di un corpo che non sente proprio e da un passato terribile, quello del nazismo. La trasformazione avviene dal femminile al maschile e dal tedesco all’ebreo, in modo del tutto allegorico. È un modo per fuggire e per ricostruirsi. L’autrice scrive in inglese, è vero, ma è cresciuta in un certo tipo di atmosfera tedesca, e di conseguenza ha posto l’accento sul modo in cui la Germania vive il tema dell’Olocausto. Noi riusciamo a capire solo una parte del discorso, mentre i tedeschi riescono a comprendere l’insieme perché ne sono toccati direttamente.
Il movimento del corpo utilizzato nella recitazione evoca una frantumazione. Per quanto riguarda la sua recitazione, questo si configura in movimenti bruschi e rizomatici. Per quanto riguarda invece il Dottor Seligman, la frammentarietà si manifesta in una immobilità quasi non umana, come a spezzare la dinamicità di un corpo vivo. Che relazione c’è tra questo tipo di recitazione frammentata e l’idea di frammentazione legata al sentirsi incatenati in un corpo non proprio, caratterizzante sia la società attuale che l’ideologia nazista?
Sul piano più propriamente tecnico della recitazione c’è uno spezzettamento del corpo, sia per quanto riguarda la staticità del Dottor Seligman, sia per i movimenti bruschi della protagonista. È un’impostazione non naturalistica della postura. Ciò che racconta questo modo di recitare è l’idea di un soggetto che si cerca e non si trova. La ricerca è condotta in modo frammentario, per questo la protagonista vive in modo tragico la sua condizione. Alla fine dello spettacolo si ha una certa risoluzione, con la conquista di una stabilità a lungo cercata.
I cambi di registro nello spettacolo sono molteplici. Le luci e la regia li accompagnano da vicino. Qual è la relazione tra i cambi di registro del testo e l’utilizzo di regia e luci? Cosa vuole suggerire allo spettatore?
Su questo non posso rispondere direttamente, ma posso intuire alcune cose. Nel libro c’è un’alternanza di registri, si passa dal tragico al comico. È una qualità piacevole del testo, ed è la sua stessa forma: un modo di raccontare molto colloquiale. Ci sono momenti in cui molte donne si riconoscono nella fatica di essere donne, e così la recitazione deve stare al passo con questa tragica quotidianità. In altre situazioni lo stesso tema è pensato in modo più ironico, di conseguenza la tensione viene un po’ smorzata. Ma il testo spiana la strada anche a momenti epici, in cui il linguaggio diventa aulico. È il caso del finale, in cui lo spessore del linguaggio si eleva insieme all’evoluzione della protagonista. Le luci accompagnano tutto questo, sono parte integrante della narrazione. Le bellissime lampade di Artemide, i cerchi luminosi sul palcoscenico, partecipano attivamente alla creazione dello spettacolo.