La rivalsa de Il cacciatore di nazisti
di Chiara Narciso
Una serie di scatole poste l’una sopra l’altra, in pile che ordinatamente riempiono e abbracciano lo spazio di ciò che appare come un semplice ufficio. E poi, ancora due scrivanie e qualche sedia: questi gli oggetti posizionati sul palco de Il cacciatore di nazisti, in scena al Teatro Franco Parenti dal 18 al 22 Gennaio. Sullo sfondo sono attaccate in modo sparso una serie di fotografie che rappresentano occhi di ogni tipo. Solo più tardi si scoprirà che sono il simbolo di uno degli studi sulla perfezione della specie attuato all’interno dei campi di concentramento sotto il regime nazista.
Ad interpretare il ruolo de Il cacciatore di nazisti è Remo Girone, unico attore in scena e simbolo della resistenza ebraica. Lo spettacolo dà voce alla storia di Simon Wiesenthal immaginandolo, nel testo e nella regia curati da Giorgio Gallione, al suo ultimo giorno di lavoro nel Centro di documentazione ebraica. Il protagonista, sopravvissuto alla prigionia in ben cinque lager, dedica la sua vita intera alla ricerca della giustizia per le vittime dell’Olocausto. A spingerlo nel proseguire questa impresa, dopo aver fondato il Centro a Vienna, è la consapevolezza di poter evitare il ripetersi di tragedie simili grazie alla propria esperienza. Per questo motivo, durante lo spettacolo, indugia pensando ai sopravvissuti, che prima o poi non ci saranno più, e a come queste atrocità possano tornare alla memoria dei contemporanei. «Non dimenticate mai, mi fido di voi!», questo il messaggio che Wiesenthal conserva da anni nella sua giacca, una richiesta recuperata all’interno di uno dei testi sacri sequestrati nei lager.
Il racconto struggente di uno degli eventi mondiali più traumatici del Novecento avviene tramite il personaggio interpretato da Girone. Memorie, letture e scorci di vita di alcune delle vittime vengono condivise con una delicatezza estrema. Daniele “Nessuno”, Sara, Anna Frank si materializzano di fronte allo spettatore che immagina il doloroso calvario vissuto da ognuno di loro. In opposizione a questi momenti, si trova un Wiesenthal impaziente e rabbioso nel rivelare le atrocità perpetrate dai carnefici. Quelli che divennero suoi nemici e lo spinsero a ricercare ogni informazione possibile pur di condannarli definitivamente a una pena che non sarebbe mai stata abbastanza dura.
La conclusione ha un sapore amaro per il protagonista che, nonostante la sua attività durata ben 58 anni, constata di aver contribuito a scovare solo il 5% dei collaboratori del regime. Il terrore di chi è stato un numero e ha vissuto l’Olocausto rimane l’oblio. La possibilità che in futuro, per dimenticanza, qualcosa di simile possa ripetersi.