La leggenda del santo bevitore
di Anna Farina
Carlo Cecchi e Andrée Ruth Shammah sono rispettivamente la voce principale e la mente registica del riallestimento di La leggenda del santo bevitore, quindici anni dopo quella che ebbe come interprete di Pietro Mazzarella. In uno spettacolo la cui drammaturgia è composta dalle parole dell’omonimo racconto autobiografico e in qualche modo testamentario del narratore austriaco Joseph Roth, la regia si pone davanti alla sfida di concepire immagini per dare vita alle parole. Tutto accade nello spazio raccolto della sala A: una scenografia minima, non per questo semplice, cala il pubblico nell’angolo di un caffè parigino anni ’30, ed è la drammaturgia sonora semplice ed evocativa a suggestionare quale sia il “fuori” del locale e il “dentro” della psiche del protagonista.
Pochi accenni all’intreccio: l’alcolizzato Andreas Kartak, dopo aver ucciso il marito della sua amante, è fuggito a Parigi e vive sotto i ponti della Senna. La porzione finale della sua vita prende una piega fiabesca quando, una sera, riceve duecento franchi da un uomo convertito al cristianesimo grazie alla storia di Santa Teresa di Liseux. Andreas si impegna a restituire il denaro la domenica seguente, facendo un’offerta nella chiesa di St. Marie des Batignolles, prima della messa delle dieci. Molte volte Andreas, aiutato dal destino, sarà protagonista di miracoli che gli consentiranno di avere in tasca una somma di denaro sufficiente per saldare il proprio debito, ma altrettante volte si lascerà distrarre da amori, vizi, vecchie amicizie, travolto dalla passione per le donne, gli amici e l’alcol.
Questa narrazione, nella sua riproposizione scenica, si moltiplica su tre livelli: quello di una donna che presumibilmente scopre il racconto e ne legge delle note di commento, scandendo la progressione della messa in scena; quello della conversazione tra Cecchi e un barista, nel cui scambio prende vita la storia di Andreas; e quello delle vicende dell’ubriaco custode di miracoli, il terzo livello che esiste solo nelle parole, e che via via si comprende essere sempre più sovrapposto al precedente, fino al collasso finale.
Ciò perché, proprio quando Andreas è sul punto di consegnare i “benedetti” duecento franchi, crolla morto all’improvviso, e a crollare è anche Cecchi, che nel narrare le vicende di Andreas Kartak in qualche modo lo è diventato. È credibile che sia la voce di entrambi, e anche quella dello stesso Roth, a dichiarare, con la serenità e consapevoleza di quando la propria vita è agli sgoccioli: «Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella».