Una seduta psicoanalitica tra palcoscenico e platea
di Lorenzo Cazzulani
Come vorrei non morire è una grande seduta psicoanalitica di gruppo, in cui la sola attrice presente sul palcoscenico è al contempo analista e analizzata. Il pubblico è co-protagonista dello spettacolo, pedina fondamentale del percorso di autoanalisi che la protagonista rappresenta dialogando con sé stessa e con gli spettatori. Al centro della vicenda è il conflitto silente con il padre, archetipo del mondo borghese: una figlia che vive con costrizione l’indifferenza e l’orgoglio paterno, la poca autenticità della loro relazione, un fitto tessuto di non detti che segna profondamente la bambina, portandola in età adulta a razionalizzare con fredda lucidità il rapporto con il genitore.
Il percorso di autoanalisi della protagonista è aiutato dal pubblico. L’attrice Daria Pascal Attolini chiama in causa direttamente coloro che assistono al suo dramma, alla messinscena artistica del suo privato, nella quale biografia e invenzione trascolorano l’una nell’altra. Le domande che la donna pone al pubblico sono potenti, impongono una risposta che non sia solo superficiale, ma che sia il risultato di un’azione di scavo interiore. La sensibilità delle tematiche affrontate è tuttavia rivestita da un’ironia che smussa un po’ gli angoli di qualcosa che tocca corde profonde della sensibilità di ognuno dei presenti in sala. I pensieri che affollano la mente rimandano alla propria infanzia, alle proprie relazioni, alle colpe commesse, all’incapacità di vedere l’altro come soggetto e non come strumento. La bellezza della regia sta nel cogliere precisamente e con chirurgica puntualità il protagonista del momento, illuminandolo. Alle volte il corpo dell’attrice diviene luminoso, come a sottolinearne la plasticità e la rilevanza per l’azione drammatica. Altre volte il raggio penetrante dei fari del teatro cala sul pubblico, quasi accecandolo: sono i momenti in cui la platea è direttamente chiamata in causa; sono gli istanti fondamentali in cui il riscontro di chi sta in sala partecipa attivamente all’autoanalisi della protagonista e del suo rapporto con il padre.
La miccia che ha avviato il monologo è la presenza inquietante della morte che cala improvvisamente sulla protagonista, dopo che viene informata di un cancro al fegato che suo padre scopre di avere. E così viene introdotto il tema centrale, quello più teorico e generale. Se il rapporto della protagonista con il padre è il perno dell’azione drammatica, il tema della morte e della sua imprevedibilità risulta essere quello più rarefatto, l’atmosfera che detta i tempi del testo. La paura della morte è esorcizzata con uno scaltro cinismo, attraverso il quale si susseguono domande e affermazioni senza fronzoli sull’ultimo passo del viaggio di ogni essere umano, quello che ne segna il traguardo finale. Provare un indicibile terrore nei confronti della morte è non riuscire ad accettare che non tutto è possibile, che esiste un limite invalicabile. Il sentimento di onnipotenza che attraversa l’ideologia dell’uomo moderno naufraga di fronte alla realtà tale per cui questo sentimento si arresta; e il punto di arresto sta proprio nell’impossibilità di vincere la morte, poiché questa da un momento all’altro fa visita a tutti. L’affermazione secondo cui tutto è possibile si rovescia in niente è possibile davanti a ciò che non può essere abbattuto.
La consapevolezza malinconica con cui lo spettatore esce dalla sala è un sentimento agrodolce estremamente difficile da descrivere.