Cassandra: dalla notte, contro il mito
di Federico Demitry
C’è un topos irrisolvibile che continua ad affascinare gli scrittori, ed è quello della notte primordiale, del mistero inconoscibile, del mondo prima che fosse mondo, ossia testimonianza e parola. Questo spazio-tempo fosco è il regno da cui giunge l’eco che chiamiamo mito, da cui la nostra letteratura si emancipa (Agamben); è il richiamo del Dio che invasa il poeta (Hölderlin), è l’oscuro da attraversare in un viaggio lungo una vita (Céline).
Da questa stessa notte, remota e popolata da uomini e dei e semi-dei, affiora Cassandra, illuminando un filo narrativo che scompiglia la staticità del buio e del mito e lo svolge trasformandolo in letteratura. Smonta gli archetipi immobili e simbolici delle figure di eroi, dei e semi-dei, minorizzandoli in fatti, azioni, fraintendimenti, storie da narrare. La guerra di Troia e i suoi eroi, infatti, nella versione di Christa Wolf, sono restituiti attraverso la personale rielaborazione e il punto di vista dissonante della sacerdotessa. Coerentemente a questa visione, nell’allestimento di Carlo Cerciello, Cecilia Lupoli, nei panni di Cassandra, si staglia dal fumo denso che ha trasformato la Sala Tre del Teatro Franco Parenti in un ventre di oscurità indefinita, tagliata dalla luce mai neutra che la illumina a scorci. Si produce così un gioco di buio e disvelamento improvviso, si rivelano i passaggi narrativi, le ferite della protagonista e quel meccanismo interpretativo che isola nel mare oscuro del fondo mitologico alcune trame storiche e personali da disseppellire.
Fondamentale, in questo, è il punto di vista. Figlia di Ecuba e Priamo, principessa eppure figura subalterna, Cassandra è la prospettiva minoritaria attraverso cui sfrondare il mito fondativo, il margine che attenta la centralità, l’angolo dello scalpello che sforma la pietra. In questo senso, è esemplare nelle sue parole la minorazione di Achille, degradato da eroe a bestia, forza truce pre-umana, atavica, la cui voracità è incapace di distinguere violenza e sesso, possesso e dominazione.
Coerente alla restituzione militante della Wolf è anche l’estetica della messinscena. Le musiche, il trucco, l’acconciatura, il costume ci riportano l’immagine iper-moderna di una Cassandra dark punk. Un’estetica che è dunque dichiaratamente e storicamente di rottura, così come lo è la figura della chiaroveggente, in direzione ostinata e contraria alla guerra che distrusse la sua città, in ribellione all’autorità troiana tanto quanto all’invasore greco, in dissidio perfino con il suo ruolo e il suo dio, che le aveva prescritto la consacrazione per stupro e, donandole la visione, l’aveva però metaforicamente maledetta al silenzio imposto a chi parla ma non viene ascoltato; condannata a non avere voce o ad averla, per citare una altra narrazione fondativa, nel deserto.
Anche per questo, la sua forma drammaturgica non può essere che il monologo, anzi il soliloquio, in cui le voci degli altri affiorano miste a volti, o rimbombano nelle crisi di coscienza, ma sempre giungono da un fondo gutturale che è quello della solitudine del personaggio, la cui sola esperienza è l’introiezione del mondo e la cui modalità d’essere è nell’immagine del setaccio o del caleidoscopio, da cui nulla esce come vi era entrato.
Cassandra, infine, porta con sé anche una consapevolezza politica esplicita: «sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi». Così, lascerà partire Enea, suo unico amore, ma in fondo forse non diverso dai Priamo, dai Paride, dagli Achille, destinato a diventare presto anche lui mito, forza centripeta attorno a cui si coagulerà una nuova patria. Cassandra però è forza centrifuga: essenzialmente contraddittoria e anti-istituzionale, lama di luce nella notte, ferita nella tela, margine indispensabile del foglio su cui si appuntano nuovi intrecci e finali alternativi.