Questa splendida non belligeranza. «POSSO? PREGO!»
di Bianca Vittoria Cattaneo
Tra imposizioni mancate e quieto vivere, autodeterminazione e dipendenza dalle dinamiche domestiche Una splendida non belligeranza di Marco Ceccotti ci racconta la storia di una famiglia. I due genitori hanno educato il loro unico figlio Luigi alla fredda convivenza e all’armonia familiare, il tutto in un ambiente di totale mancanza di contrasto sia fisico che emotivo; sono riusciti in un’impresa che potrebbe essere considerata un successo se non fosse che questa assenza di problemi ha portato il figlio all’incapacità di affrontare il mondo. È per primo Luigi stesso a riconoscere questa sua carenza e richiede invano al padre di porgli di fronte un ostacolo in modo da potere finalmente, per la prima volta nella sua vita, mettersi in gioco.
La stessa forzata mancanza di attrito tra padre e figlio si osserva anche nel rapporto tra i genitori, interpretati da Giordano Domenico Agrusta e Simona Oppedisano. I due attori presentano al pubblico personaggi caratterizzati lucidamente, che appaiono anche esteticamente costruiti in modo da dimostrare molti più anni di quelli che hanno, tanto da non far emergere la minima distanza anagrafica con Luca di Capua, in scena nei panni del figlio. I genitori spesso si comportano secondo gli stereotipi della generazione boomers: la madre inscena la tipica donna sulla cinquantina proiettata verso le innovazioni, soprattutto tecnologiche, forse per la necessità di sfogare il suo desiderio di evasione, e soffoca continuamente l’istinto di ribellione che la costringe nell’ambiente che lei stessa ha aiutato a costruire. Il padre, d’altro canto, repelle l’utilizzo delle nuove tecnologie, distanziandosi ancora di più dal figlio che si occupa di raccontare via Skype i finali di libri e film; odia il cellulare e prova un timore irrazionale per le telefonate pubblicitarie, la sua vita è dedicata all’amato lavoro, che consiste nella fabbricazione di sanitari di lusso.
Osserviamo una coppia di genitori tradizionalisti che cerca in tutti i modi di modernizzarsi, il ché risulta quasi paradossale dal momento che incarnano ruoli tipici degli stereotipi di genere: la donna deve occuparsi della casa mentre l’uomo ha il dovere di mantenere la famiglia. Ed è proprio nel momento in cui teme di non riuscire più a svolgere il suo ruolo, causa la sempre minor richiesta di sanitari di lusso, che lo spettacolo cambia: sente che il suo dovere non è rispettato e il mondo senza conflitto in cui credeva di vivere si distrugge. Spinto dalla preoccupazione cambia lavoro e scompare in seguito ad uno dei turni notturni. Ritornerà poco dopo in scena nei panni del suo mito: Saddam Hussein, il suo ex-maggiore acquirente. Veniamo a sapere che era stato rapito e derubato e che, per superare la difficoltà che era stato obbligato a fronteggiare, aveva sentito la necessità di alienarsi e di affrontare il trauma come avrebbe fatto qualcun altro, incapace di farlo rimanendo fedele alla sua maschera di non vulnerabilità. Oltre a far riemergere l’incoerenza di un uomo che educa suo figlio al non conflitto ma che poi si presenta travestito da dittatore, si osserva la sua incapacità di reagire in un mondo troppo crudele per chi crede che un dittatore sia un eroe.
La metamorfosi del padre in Saddam Hussein si inserisce nella metafora della guerra, presente in tutta la pièce fin a partire dal titolo. Osserviamo nel rapporto tra i personaggi una non belligeranza che non conduce alla pace, quanto più ad una guerra fredda, palese sia nell’insofferenza del ragazzo sia nel rapporto tra i genitori. Gli adulti stessi non sembrano comprendere l’uno i bisogni dell’altro in un’assenza di contrasto che però significa anche assenza di dialogo: i ruoli che interpretano hanno cancellato le loro identità. Hanno cercato di educare il figlio al quieto vivere, senza rendersi conto che ignorare i conflitti è un modus operandi totalmente inefficace nel mondo reale. E il padre lo sperimenta proprio sulla sua pelle: nel momento in cui agire sarebbe stato necessario (come di fronte ad un rapimento) rimane inerte e, pur di non accettare le difficoltà della vita adotta addirittura un’altra identità.
Questo cambiamento permette però al capofamiglia di uscire finalmente dal ruolo che si era imposto e di ritrovare un’autenticità umana che sembrava perduta, inaugurando un dialogo con la moglie e il figlio che, andando oltre alla maschera, ritrovano la sua vera identità. Solo a questo punto infatti i personaggi comunicano in modo sincero: parlano di sentimenti e di desideri e non conversano più solamente attraverso formule di cortesia, come la cantilenante «Posso? Prego!» che risuona asetticamente per tutta la prima parte dello spettacolo.