Teatro Patologico debutta al Parenti con Medea
di Federico Demitry
Tutti in piedi per il debutto della Medea al Franco Parenti. Una standing ovation per lo spettacolo di Teatro Patologico che diventa importante momento di confronto con il lavoro dell’Associazione. Nata nel 1992 con l’intento di svolgere attività didattiche, pedagogiche e teatrali insieme a disabili fisici e psichici, vanta una sua Compagnia Stabile che ha portato questo singolare e avanguardistico progetto all’attenzione di tutto il mondo. Solo questo spettacolo, ad esempio, è stato a Londra, a Tokyo, al Quartier Generale delle Nazioni Unite a New York, al Parlamento Europeo di Bruxelles.
A tenerne le fila, dietro le quinte e sul palco, è Dario D’Ambrosi, che da un lato ricorda l’importanza della Legge Basaglia (1978) sulla chiusura dei manicomi, dall’altro sottolinea la necessità di nuove forme di integrazione e cura delle persone con malattie mentali. L’esperienza di Teatro Patologico in questo è esemplare, rappresentando oltretutto una scommessa vinta dal punto di vista artistico.
Le soluzioni cercate e trovate in campo drammaturgico e registico propongono un teatro vivo, potente, che sprigiona «l’inquietudine e l’agitazione», che manifesta «l’impulso psichico segreto», quello che Antonin Artaud chiamava «la Parola prima delle parole». Sulla scorta dello stesso saggio, ciò che la Compagnia non propone è invece un teatro «regno del torpore», rassicurante, scialbo nelle sue scenografie o nella verbosità. In questa Medea, infatti, vengono esaltati i nuclei primordiali della tragedia: il sangue, il sacrificio, l’ineluttabilità, il sacrilego, attraverso l’utilizzo di pochi segni distintivi e la selezione di alcune scene chiave. Cifra stilistica è inoltre l’utilizzo del greco antico, con i suoi suoni ancestrali, che si alterna ai monologhi e ai dialoghi in italiano tra i personaggi: Medea (Almerica Schiavo), Giasone (Paolo Vaselli), Creonte (Dario D’Ambrosi). Il silenzio accompagna gli scambi comunicativi in lingua italiana, quasi a voler riportare lo spettatore nel territorio del comprensibile, del conosciuto, a volerlo rassicurare, mentre il greco antico è sempre immerso in un crescendo strumentale (in cui regna il timbro delle percussioni) e prorompe in maniera corale, come un turbine di forze che frantuma e ipnotizza la sensibilità degli astanti. Una contrapposizione che esalta l’incombere necessario della tragedia, che sovrasta le volontà dei singoli, e che dà prova di come il teatro disponga di strumenti ben più potenti della sola semiotica testuale.
La scelta del soggetto, infine, sembra tra le più felici. Non solo per il potere generativo che Medea suscita e ha suscitato in campo sociale, politico, storico-letterario, ma proprio per il suo aspetto altamente perturbante, esaltato in questa performance. Feroce e intima, fragile e efferata, divina e sacrilega, il suo mito sembra radicato nelle archeologie culturali più disparate (basti pensare alle consonanze che ha con la temibile Llorona latino-americana) e risuonare perfino nei versi del poeta orfico Dino Campana, che finì la sua vita in uno di quegli stessi manicomi che Basaglia volle chiudere – «una leonessa, hai natura più feroce di Scilla, il mostro del Tirreno», leggiamo in Euripide, parole che Campana rimastica nella sua invocazione A una troia dagli occhi ferrigni.
Qui è dunque forse il segreto di Medea, donna in un mondo in cui il potere è maschile (Wolf), forza tellurica (Pasolini), ma soprattutto strega barbara irriducibile all’ordine greco, incarnazione, forse, di ciò che il «teatro moderno ha nascosto sotto la vernice dell’uomo pseudocivilizzato» (Artaud).