I Promessi sposi alla prova: teatro al gioco della parola
di Anna Farina
Il nuovo allestimento de I Promessi sposi alla prova di Testori, storica regia di Andreé Ruth Shammah, che debuttò nella stagione 1983–1984 all’allora Salone Pier Lombardo, per questa volta si sposta nel luogo che ha dato i natali artistici alla regista, il Piccolo Teatro di Milano. E forse sono proprio alcune parole del fondatore Paolo Grassi a fornire una chiave per leggere questa messa in scena: «Il teatro è qualcosa che dura poco, che brucia subito». È senza dubbio un fuoco, quello che da sempre spinge gli umani a dedicarsi a un’arte effimera – per quanto tutt’altro che priva di ripercussioni filosofiche, psicologiche, politiche. Quest’ultima visione de I Promessi sposi alla prova può essere letta proprio con la lente della strenua lotta teatrale verso ciò che scompare non appena lo si pronuncia. A prendersene carico è colui che interpretò l’attore che fa Renzo nella storica versione, Giovanni Crippa, affiancato da tre promettenti esordienti (Tobia Dal Corso Polzot, Aurora Spreafico, Vito Vicino) e tre attrici d’esperienza (Rita Pelusio, Carlina Torta, Federica Fracassi).
Crippa, il Maestro di teatro e di vita di una sgangherata compagnia attoriale di un paese nei pressi della manzoniana Lecco, apre il testo con il celebre monologo riguardante la pronuncia della frase «Quel ramo del lago di Como…». Subito acquisisce valenza paradigmatica la ricerca testoriana intorno al verbo che si fa carne, cioè l’ideologia che riesce a diventare etica. Questo è uno dei tanti momenti di indagine proposti dal testo di Testori a partire dal capolavoro manzoniano. Molti altri si sviluppano tra un tentativo e l’altro della compagnia di creare una messa in scena del romanzo. Il risultato è un caleidoscopio di parole: quelle di Manzoni, che «vanno rispettate» e dunque messe alla prova per arrivare alla loro più sincera realizzazione nell’azione scenica; quelle di Testori, la cui complessa architettura logica gioca in realtà piuttosto sulla sedimentazione nella parte irrazionale della mente degli spettatori; e quelle del cast dello spettacolo, forse le più interessanti per il presente della messa in scena. L’appellarsi a un fuori dalla scena apre, per l’appunto, indagini sull’implicazione dell’atto teatrale, dell’essere voce di un testo, del manicheismo nel giudizio dei propri personaggi.
La lunghezza e densità dello spettacolo sono articolate sapientemente in momenti di costruzione verbosa e rottura umoristica, carnale, nonché di rapporto dialogico con una scenografia (quella storica di Gianmaurizio Fercioni) tanto semplice quanto funzionale al ritmo dell’azione. Per la «più cristiana» delle opere di Testori, lo scenografo e la regista ricorrono a elementi di chiaro e in qualche modo commovente rimando alla Trilogia degli Scarrozzanti, con il sipario sollevato a mano e lo sgabello sul quale la riflessione esistenziale de L’Innominato, in un certo modo, diventa quella de L’Ambleto. Le tre pareti messe in scena servono proprio per rompere la quarta: l’attore che fa Renzo spinge un suo toccante monologo tra le gradinate della platea; il cast a più riprese prova a trovare conferma dei propri discorsi nello sguardo del pubblico. È così, dunque, che si conclude lo spettacolo: con un augurio fatto dal Maestro, che è ora così intimamente sovrapposto con la sua persona di Giovanni Crippa, ai “nuovi” attori. Mentre annuncia il termine della pièce, chiede a ciascuno di presentarsi col proprio nome, ponendo buoni auspici per i propri giovani colleghi riguardo il loro futuro nel campo del teatro, l’arte che «brucia subito».