La sparanoia: Intervista Niccolò Fettarappa
a cura di Federico Demitry
Classe 1996, Niccolò Fettarappa Sandri è attore e autore conosciuto e apprezzato dal pubblico del Teatro Franco Parenti, dove già nel 2022 aveva portato lo spettacolo Apocalisse Tascabile. Ancora a Milano per Hystrio Festival nel 2024 con Nel mio bagno di sangue, è ritornato in questa stagione in Sala Tre con La sparanoia. Sul palco insieme a Lorenzo Guerrieri, ci propone una serie di scene o di capitoli, quadri di una gioventù energica ma addomesticata, colta ma sonnolenta, oppure insoddisfatta, ansiosa, depressa. Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo.
Come nasce La sparanoia? Come lavori agli spettacoli?
Nasce nel 2020 più o meno dal desiderio di raccontare il periodo di repressione poliziesca vissuta durante il Covid e di cui poi alcune tendenze sono via via diventate quasi delle riforme strutturali del nostro vivere sociale: la presenza massiccia della polizia, la limitazione di determinate libertà personali, la limitazione della vita collettiva, la criminalizzazione di alcune politiche che riguardano i giovani. Quando lavoro poi parto sempre dagli appunti che ho preso, che nel corso degli anni si sono stratificati. E poi gli appunti portano a uno sbocco, a una foce, come se scavassi alla ricerca di un’uscita verso il mare, e poi il mare è lo spettacolo.
Tu infatti trituri e sputi una gran quantità di formule, ritornelli, sigle, refrain, citazioni, situazioni quotidiane e personaggi storici. Vis più polemica o più ironica?
Se c’è una possibilità direi con un’ironia polemizzante o una polemica ironica. L’ironia è uno strumento che salva dalla pesantezza e da un temperamento serioso che spesso a teatro si adotta per affrontare temi seri. Non necessariamente una cosa profonda va approcciata in modo serioso. Parlare delle cose sconosciute, buie e misteriose in modo buio e misterioso secondo me non fa un gran favore né a chi cerca né a chi viene a vedere la restituzione, cioè al pubblico. Sono dell’idea che le cose profonde debbano saper essere trattate con leggerezza, ironia sì, ma non post-ironia. Non l’ironia che si prende gioco di sé stessa, cinica, ma una risata che sappia spezzare le catene, che sappia riportare il sangue alla testa, una risata ricognitivizzante, rivitalizzante rispetto all’essere umano; rivivificante e polemica sicuramente, di conflitto con l’esistente, col mondo.
In un’intervista con Christian Raimo hai detto: “Bisogna recuperare un po’ di Illuminismo. L’arte è un discorso sul mondo. E può e deve tornare a ferire. Senza scolarizzare”. Che cosa intendi?
L’arte deve tornare a ferire cioè a non essere conciliante, a non riappacificare lo spettatore con il mondo, ma piuttosto a farlo sentire estraneo nel mondo che ha attorno. Il desiderio illuminista, quindi progressista, è di volerlo cambiare, di fare un mondo migliore. Non di sperare, di fare. C’è una frase molto bella di Virgilio che dice: “L’unica speranza per i vinti è di non sperare più”. Cioè la speranza è in fondo per gli sconfitti, per chi è cioè nell’impotenza di riuscire concretamente a fare qualcosa e non può che sperare. Mentre noi con i nostri spettacoli mettiamo in scena il desiderio di voler cambiare, non la speranza. Il teatro è un meccanismo che azionandosi può istigare un cambiamento anche in altre zone, in altri perimetri della vita.
Tornando allo spettacolo: tra le tante figure che appaiono ne La sparanoia, la mia preferita è quella del brigadiere. Non ho capito però se la sua repressione è più spaventosa o più rassicurante.
Questo è proprio il tema: per cogliere bene quella figura bisogna coglierne la sua doppiezza contraddittoria. Il brigadiere rappresenta quella repressione che in fondo ci piace subire, che ricerchiamo, perché siamo noi stessi i nostri primi repressori. È forse il tema del masochismo in Freud: gli esseri umani cercano la propria pulsione di morte perché in questo trovano un piacere. Il brigadiere rappresenta da un lato l’ossessione di darsi delle regole, che sono per certi versi rassicuranti, benché chiudano il cerchio della vita e creino confini. Dall’altro rappresenta il piacere anche dell’obbedienza, dell’essere censurati, repressi, sculacciati dal potere. Mi interessava indagare quella zona grigia, perturbante, non di corresponsabilità, ma di complicità fra potente e suddito, tra chi agisce e chi subisce.
Invece la tua scena preferita qual è?
A me piace molto il telegiornale all’inizio, la parte dell’intervista col ministro. A livello esecutivo ovviamente la goduria massima arriva nel finale quando c’è l’attentato. Per noi tutto lo spettacolo non è che un riscaldare i motori per poi arrivare a quell’azione.
Infatti La sparanoia è uno spettacolo che ricerca il contatto, il legame col suo pubblico, fino a raggiungerlo addirittura fisicamente. Cosa vorresti che si portasse a casa chi vede i tuoi spettacoli?
Non la speranza, non vorrei che gli spettacoli fossero riconcilianti. Vorrei che il mondo tornasse a essere avvertito come qualcosa che deve essere modificato, che il pubblico riconoscesse i propri nemici. Vorrei che si risvegliasse in loro un’energia trasformativa, nei confronti del mondo e di sé stessi. L’essere umano è un essere storico, per natura non è niente, non esiste una sostanza umana immodificabile. È un essere perfettibile. Questo è il desiderio di rivoluzione che vorrei accendere negli spettatori: l’idea che siamo dei progetti qui sulla terra, con una scadenza anche abbastanza breve, ma che possiamo cambiare.