Sik-Sik. L’amore che ingoia: Anna Cappelli e la ferocia del possesso

12 Novembre 2025
Valentina Picello nello spettacolo Anna Cappelli regia di Claudio Tolcachir

L’amore che ingoia: Anna Cappelli e la ferocia del possesso
di Federico Demitry

Al Teatro Franco Parenti di Milano è andato in scena Anna Cappelli di Annibale Ruccello, piccolo gioiello del teatro contemporaneo italiano, capace ancora oggi di interrogare con lucidità e ferocia i meccanismi dell’amore malato e del desiderio di possesso. La pièce, scritta nel 1986, racconta la parabola tragica e grottesca di una donna sola, impiegata di provincia, che s’illude di trovare nella convivenza con il compagno Tonino la realizzazione della propria vita. Quando però lui decide di troncare la relazione, il desiderio si trasforma in ossessione: la passione si fa tutta bocca che urla, azzanna, ha fame, ingoia.

Il monologo di Ruccello, costruito come un flusso di coscienza, rivela la modernità dell’autore. In un’Italia, la nostra, immersa nella cronaca costante dell’ennesimo femminicidio, la tragedia di Anna Cappelli risuona con inquietante attualità. Tanto più che, con i ruoli invertiti rispetto ai casi reali, lo spettatore coglie con maggiore nitidezza la dinamica dell’amore che si contamina di paura, dipendenza e bisogno di controllo: un sentimento che smette di essere legame e diventa gabbia. Ruccello sembra anticipare le cronache di oggi, le notizie che ogni giorno ci raccontano di passioni degenerate in violenza.

Non solo: per capire davvero Anna bisogna guardare al suo passato. Ruccello la immagina figlia di genitori oppressivi, umiliata da un’educazione che la mette costantemente in ombra rispetto alle sorelle. È cresciuta dividendo spazi, vestiti, perfino l’aria: nulla è mai stato davvero suo. Forse è proprio un trauma antico — la paura dell’abbandono, l’impossibilità di accettare il vuoto — a rendere morbosa ogni sua relazione. Il sogno di un marito, di una casa, di un futuro è allora più di un progetto sentimentale: è una rivendicazione ontologica. Anna vuole finalmente possedere qualcosa, o qualcuno, interamente, per darsi il diritto di esistere. Il suo amore nasce come rivincita o risarcimento, e così si trasforma presto in condanna.

In scena, sola, Valentina Picello regge con intensità magnetica il ritmo del monologo. È lei a incarnare l’universo della protagonista, a dare voce ai suoi slanci e alle sue deformazioni, ai ricordi d’infanzia e alle paure di donna senza radici. Con pieno controllo della parola e, ancora più, del gesto, il suo corpo diventa un campo di battaglia tra pudore e furia, tra desiderio e disperazione; di altri attori, davvero, non si sente la mancanza.

E infine la scenografia: la terra — madre e tomba insieme — domina la scena come un secondo personaggio, da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna, simbolo dell’intreccio tra amore e morte. Come quello di Anna, che non è vero, perché non nasce dal desiderio dell’altro, ma dalla paura del vuoto; un amore che vuole possedere, che annulla per poter esistere, che seppellisce per fiorire — e che, per nascere, uccide.

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