Sik-Sik. L’eco della falena, intervista al regista Ciro Gallorano.

26 Ottobre 2025
Scena dello spettacolo L'eco della falena

L’eco della falena, intervista al regista Ciro Gallorano.
di Chiara Narciso

La falena si caratterizza per la sua attrazione fatale nei confronti della luce. L’eco della falena è una scrittura composita di vita quotidiana che si intreccia con gli scritti di Virginia Woolf e alcuni tratti della sua biografia. Lo spettacolo in scena al Teatro Franco Parenti si distingue per il culto del gesto routinario eseguito dagli interpreti Sara Bonci e Davide Arena a seguito di un lavoro di sperimentazione che elude la parola. Abbiamo intervistato il regista, Ciro Gallorano, per approfondire la ricerca e la messa in scena del suo lavoro.

Puoi raccontarmi la ricerca svolta rispetto al lavoro di Virginia Woolf?

Il punto di partenza è stato un capitolo di Gita al faro che si intitola Il tempo passa e ripercorre la descrizione di una vecchia casa vacanze di famiglia, utilizzata nella stagione estiva. Questo posto è legato ai ricordi di giovinezza, di felicità e di spensieratezza. L’obiettivo di chi la abita, nel racconto, è quello di fare una gita al faro, che in realtà non avverrà mai per diverse situazioni avverse, dalle condizioni meteorologiche allo stato di salute dei bambini. Ne Il tempo passa, una domestica racconta questo luogo quindici anni dopo la morte della proprietaria: la casa, ormai disabitata, rivela la decadenza degli arredi e la lenta invasione della natura che si riappropria dello spazio.

Qual è stato l’esercizio di inserimento di quella temporalità e di quel vissuto all’interno del vostro lavoro?

Siamo partiti dal focus sul tempo e sulla memoria, trasponendo in immagini alcuni elementi caratteristici del racconto. Il lavoro però ha virato sulle sensazioni, sulle atmosfere e sulla percezione che senza lo spettatore non è in grado di esistere. Sia dal vissuto personale della scrittrice sia dalla sua opera emergono motivi ricorrenti, come quello dell’acqua, elemento ambivalente che, pur evocando spaesamento e confusione, resta simbolo di vitalità. Altrettanto rilevante è il tema del fuoco: Woolf stessa veniva associata alla figura della falena, attratta da una luce che, nella sua ricerca di verità, diventa inevitabilmente fatale.

Perché nello spettacolo avete scelto di non utilizzare la parola?

Raccontare la solitudine e la marginalità era tra i primi obiettivi di questo lavoro, rappresentare tutto ciò che non viene detto perché non ha parole per essere espresso. Il silenzio è stata una necessità, una scelta drammaturgica oltre che un linguaggio, per sottolineare la fragilità e l’isolamento emotivo delle figure in scena. A meno che non parli da sola, una figura emarginata emotivamente non utilizza parole per esprimersi. Il testo comunque è sotto ogni gesto e azione che viene messa in scena. Attraverso i rumori e le immagini, l’opera vuole coinvolgere lo spettatore in maniera soggettiva e sensoriale. La cosa che mi affascina è la possibilità del pubblico di partecipare con il proprio vissuto, che è sempre diverso nonostante ci siano degli archetipi universali. Ogni significato è legittimo, l’immagine è democratica e ognuno sceglie la sensibilità e il senso che più gli appartiene».

Perché secondo te i gesti quotidiani hanno questa carica così potente da riuscire ad esprimere il passaggio di tempi, mondi, luoghi, prospettive interiori?

Perché appartengono a tutti quanti. La bellezza si nasconde attraverso questi gesti. Un esercizio interessante potrebbe essere quello di ripetere un gesto quotidiano, eliminando gli elementi concreti, gli oggetti, per scoprire la poesia che si cela dietro la gestualità umana. Per creare empatia e vicinanza con lo spettatore, le figure isolate in scena forniscono dei punti di riferimento chiari e ascrivibili alla quotidianità.

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