Filippo Timi apre il suo diario e con lucida follia si racconta sul palco del Teatro Franco Parenti con «Non sarò mai Elvis Presley», il suo nuovo lavoro, 13 canzoni e altrettanti monologhi da Goethe a Peter Griffin, da Iva Zanicchi a Michelangelo, l’artista da cui è iniziato tutto. Perché Michelangelo? «Il tema del non giudizio è fondamentale. Nelle sculture Schiavi di Michelangelo che molti pensano incompiute si nasconde il concetto di metamorfosi, Michelangelo le ha pensate per raccontare il processo del nostro esistere. Questo è il mio Giudizio universale, una pioggia di emozioni tradotte in musica, alcune canzoni presto faranno parte di un disco musicato dalla band di Propaganda Live». Un lavoro intimo e diretto, un palco nudo dove tutto è a vista, cosa ascolteremo? «Una parte è tratta dal mio Cabaret delle piccole cose. Per riflettere sull’inadeguatezza che tutti abbiamo di fronte ai sogni e ai grandi sentimenti c è la candelina che si sente inutile perché è nata senza picciolo e il sasso innamorato che non avendo la bocca non può dare voce al suo cuore. È meraviglioso pensare che nel raccontare storie di questi esserini si possa parlare di un sentire universale e dell’attimo che stiamo vivendo». Nello spettacolo c’è anche una parte dedicata alla sua famiglia. «Cemento ruvido racconta come vedevo mio padre accanto a mia madre, ma anche il rapporto che avevo da piccolo con lei, una ragazza che vedevo già vecchia e stanca, i figli pensano sempre che i genitori siano nati già anziani». E Peter Griffin, il personaggio della popolare serie, cosa c entra in tutto ciò? «Lui mi permette di iniziare con un brano di Majakovskij e terminare con il mio primo incontro con Sorrentino, una scrittura esemplare che racconta tutto ciò di cui mi nutro. L obiettivo è trovare l armonia in un incastro di opposti, qui parlo di me certo, ma vuole essere un inno alla leggerezza». Istantanee di vita quotidiana che danno lo spunto per parlare di ciò che c è là fuori.