L’Uno e la “Grande età” secondo Giulio Busi
di Lorenzo Cazzulani
La lezione di Giulio Busi – direttore dell’Istituto di Giudaistica di Berlino – inizia “a braccio”, come lo stesso autore tiene a sottolineare. Il tema, ormai consueto per il Teatro Franco Parenti, è la “Grande età”. Nella sala AcomeA, con il suo soffitto alto e le sue pareti strette, che la fanno assomigliare a una navata gotica, c’è anche Andrée Ruth Shammah, la quale introduce la lezione. Poi, con la solita aria distinta e pacata che lo contraddistingue, Giulio Busi sale sul palco, tra gli applausi del pubblico.
Il professore rimane in piedi per tutta la durata della lezione, sottolineando anche con il suo linguaggio del corpo l’informalità della situazione. Difatti, l’intervento è articolato in tre momenti, alternati e ripetuti circolarmente. Primo, un’argomentazione di Busi sul tema affrontato; secondo, una serie di immagini proiettate su un grande schermo sulla parete di fondo del palcoscenico; terzo, la lettura di alcuni passi, a opera di un attore, tratti dall’ultimo libro pubblicato dall’autore, intitolato L’Uno. Il testo analizza il concetto di unità a partire dalla letteratura ebraica, religiosa e cabalistica, con incursioni anche nella filosofia e nel pensiero greco. È proprio il concetto di Uno che Busi ha voluto legare a quello di Grande età, in un modo abbastanza complesso e di non facile comprensione.
Dapprima, una domanda: che cosa è la Grande età? È un contenitore molto capiente, dice Busi. «In gioventù possediamo molte speranze, ma poche memorie. Nella Grande età il rapporto è invertito». Le memorie, i dialoghi, le esperienze vissute, riempiono il contenitore della Grande età. I ricordi sono quantificabili; la struttura che li contiene, no. La nostra mente, concetto che sfugge a ogni riduzionismo biologico, è un oggetto meraviglioso nella sua misticità: si configura come l’Uno, la totalità nella quale i pensieri e i ricordi trovano il loro giusto spazio e la loro ragione d’essere. Il contenitore cresce con i contenuti che di volta in volta si accumulano in esso, riempiendolo. È una struttura in divenire: qualcosa che accompagna il viaggio dell’esistenza del singolo e, nello stesso tempo, ne è la precondizione necessaria. Cosa sarebbero infatti i ricordi senza l’unità che li precede e li contiene, e che consente di distinguerli?
Gli esempi portati da Busi, corredati dalle immagini proiettate sullo schermo, avvalorano positivamente il discorso. Tra le altre, il Roveto Ardente, famosissimo luogo biblico, è una delle prime testimonianze citate dal direttore dell’Istituto di Giudaistica. Nel passo viene ribadita la sacralità dello spazio in cui Mosè parla con Dio, colloquio che avviene attraverso l’ardore di un fuoco eterno. La sacralità della scena deriva dalla dimensione dialogica: il confronto tra Uomo e Dio sacralizza l’evento, poiché accresce la quantità e qualità dei ricordi e delle memorie che vivono all’interno dell’unità della mente, ovvero nel loro contenitore. Un altro esempio emblematico è il celebre “non finito” michelangiolesco. La Pietà Rondanini, per citarne uno, con la sua imperfezione formale, si manifesta come un’opera aperta, come il finale di un romanzo che non chiude la vicenda. La sua “non finitezza” apre allo spettatore che la osserva: l’opera d’arte avanza verso il fruitore suggerendogli di completarla, di modo che egli si configuri attivamente all’interno della dialettica “creazione artistica-spettatore” e non solamente come un passivo osservatore. L’opera non finita, dunque, tesse un dialogo con il fruitore, lo esorta a rovesciare la propria personalità in essa, per aiutarne il completamento. Il dialogo tra opera d’arte e fruitore si configura come “sacro” esattamente come si dispiegava quello tra Uomo e Dio: è il dialogo che riempie il contenitore che è la nostra mente, portando avanti un processo di accrescimento che, michelangiolescamente, non conosce mai una fine.