Affogo: intervista a Dino Lopardo e Mario Russo
di Chiara Narciso
La Sala Tre del Teatro Franco Parenti si fa piscina e stanza da bagno per ospitare Affogo, monologo impreziosito da irruzioni familiari o sociali. Parte de La trilogia dell’odio curata dall’autore e regista Dino Lopardo, questo spettacolo ne è il primo prodotto. Nicholas, il protagonista, vorrebbe diventare un nuotatore professionista e si trova diviso tra una famiglia che vive una realtà arretrata e la società che la circonda. Entrambi gli ambienti soffocano l’ambizione del bambino e, insieme al risvolto tragico del decesso del fratellino per annegamento, divengono fardello costante nella crescita dell’individuo, perpetuando un senso di frustrazione anche nell’età adulta. Disturbi del comportamento, sociopatia, depressione concorrono a un tira e molla di violenze subite e tramandate. Dino Lopardo e Mario Russo, rispettivamente autore e attore dello spettacolo (arricchito dalle performance di Alfredo Tortorelli e dall’aiuto regia di Amelia Di Corso) ci hanno raccontato il processo di ideazione e messa in scena.
Come è nato lo spettacolo?
D.L.: Lo spettacolo è nato dall’idea di sublimare il disagio. Partendo da una realtà di provincia da poter estendere a tutto il territorio nazionale, si racconta il desiderio di riuscire in qualcosa che, per circostanze familiari e legate alla società stessa, non si può realizzare. La piscina, luogo in cui potenzialmente si sarebbe potuto concretizzare il desiderio di Nicholas, diviene simbolo del limite e della struttura sociale che circonda l’individuo. Il risultato di questa condizione di disagio è l’odio, causato dall’impedimento dell’ambiente in cui il ragazzo cresce. Questo è stato il punto di partenza per lo spettacolo, insieme a una forte componente autobiografica di crescita all’interno di una realtà provinciale che condivido con Mario. Su questa idea di base ricerchiamo, ognuno con la propria professionalità e tecnica, il modo di lavorare al macrotema e al canovaccio che emerge. Io personalmente utilizzo molto la musica per alimentare l’atmosfera e la dimensione che voglio proporre, poi ci trasferiamo in sala anche per includere gli artisti nel processo di produzione.
M.R.: Si trasforma in questo senso anche la figura del regista, non c’è un capo che dirige lo spettacolo, che si eleva rispetto al processo di creazione dell’attore. Per Affogo, per esempio, siamo partiti da diciotto pagine di testo, lo abbiamo discusso per poi iniziare a lavorare sull’improvvisazione. Dino aveva già proposto alcuni elementi della scenografia, come la vasca da bagno, così come una drammaturgia di luci con cui iniziare a giocare per creare un racconto. Quando produciamo questa tipologia di spettacoli facciamo anche tante prove a porte aperte: inizialmente il protagonista non interagiva con il pubblico, poi abbiamo riscontrato una difficoltà a raccontare la storia con una quarta parete ed è nata in improvvisazione la scena in cui Nicholas parla con gli spettatori e li coinvolge.
Affogare nella società e nella famiglia, sono i due grandi filoni attorno ai quali ruota lo spettacolo. Come avete reso questo senso di soffocamento e claustrofobia nella rappresentazione?
M.R.: Per affrontare questo personaggio e restituire il senso di claustrofobia sono partito da un forte disagio che nasce dai miei ricordi e dalla mia famiglia. In particolare dalle pressioni familiari e sociali che fanno affiorare un senso di colpa senza darti la possibilità di capire bene da dove questo nasca e che, comunque, come singolo, continui a portarti sulla pelle. Il senso di apnea viene reso anche attraverso alcuni gesti concreti come il tentativo di Nicholas bambino di resistere più tempo possibile sott’acqua.
D.L.: Io ricollego questo senso di soffocamento all’essere guidati, in età giovanile e adolescenziale, nel momento in cui stai cercando la tua strada e sei condizionato dalla famiglia e dall’assetto societario che ti circonda. Sono le esperienze con i “cattivi maestri” ad aver guidato le nostre vite. Questi divengono emblema dell’aspetto claustrofobico, come la figura del bagnino in Affogo, caratterizzata da comportamenti scorretti e al limite del grottesco.
Perché avete deciso di utilizzare il dialetto?
D.L.: Io ho già lavorato con questo tipo di linguaggio; ION, lo spettacolo precedente che avevo realizzato è in lucano, per esempio. Mi sembra che il dialetto permetta di appoggiare meglio le storie viscerali che si vanno a raccontare. Nel caso di Mario il dialetto crotonese e poi il napoletano, rendono queste storie così forti autentiche e non patetiche.
M.R.: Il dialetto fa parte del nostro linguaggio, appoggiarmi a questo calabrese, che è molto duro, rappresenta pienamente la violenza della situazione che volevamo affrontare e il tema dell’odio. Utilizzare un italiano perfetto e una dizione corretta sarebbe stato come inserire un filtro. Dal mio punto di vista, poi, l’utilizzo dell’italiano non aiuta a collocare il personaggio o la storia e, a livello di immaginario, tutto diviene più sfocato.
Questo spettacolo è tutto tranne che politically correct, dal bagnino che insulta i bambini al bullismo che il fratellino di Nicholas subisce. Come avete affrontato questa scelta?
M.R.: Per me l’estremo del politically correct e l’estremo dell’utilizzo di termini “scorretti” è come se si specchiassero, in realtà nessuno di noi, come artista, può essere sicuro e deciso su quale sia la scelta corretta. Inizialmente io ero contrario all’impiego delle parole che poi abbiamo utilizzato nello spettacolo e giudicavo molto la messa in scena da questo punto di vista. Poi affrontando il lavoro e provando a stare dentro il personaggio ad esempio del bagnino, sono riaffiorati tanti ricordi che vedevano protagonisti quei “cattivi maestri” di cui parlavamo prima. Continuo comunque, nonostante il numero di repliche portate a termine, a pormi delle domande, perché sebbene sia vero che questi termini li abbiamo sentiti e risentiti, non riesco a volte a trovare il senso di ripeterli ancora.
D.L.: L’obiettivo finale, la situazione conclusiva che il personaggio deve raggiungere è sempre molto chiara per me e le fasi che gli attori devono attraversare per arrivarci possono essere tortuose, scomode, sconvenienti. Rifletto sempre molto su cosa si possa dire o non, sul rischio in queste circostanze o sull’esporsi assumendosi poi le responsabilità della messa in scena che si propone. Per ovviare anche a una deriva diseducativa, altro dubbio sorto all’intero gruppo di lavoro, abbiamo sottoposto lo spettacolo ad alcuni ragazzi molto giovani per comprendere la loro ricezione e risposta a questo linguaggio. Secondo me ai fini della storia portare determinate parole, realmente centellinate e poste in punti specifici, permette di raggiungere l’obiettivo della potenza drammatica nella conclusione. Questa modalità di essere disturbante non è un’opera di egocentrismo, è utile ai fini della storia.