Affogo: Lopardo e la remota ossessione di guarire
di Federico Demitry
Una vasca da bagno, di tre quarti, incastonata in un carrello metallico: domina la scena buia. La scenografia è tutta lì, o quasi. Il resto lo fanno le musiche, le luci, il corpo degli attori. Un’economia registica in cui risuona l’ottavo comandamento del Manifesto di Gent firmato da Milo Rau, per un nuovo teatro che possa arrivare ovunque. Eppure non siamo in Belgio, ma in Italia, al Teatro Franco Parenti e l’autore è Dino Lopardo.
Affogo, questo il titolo, è un monologo fatto carne da Mario Russo e attraversato dalla presenza in scena di Alfredo Tortorelli. La storia è quella di Nicholas, ragazzo cresciuto in una provincia deprivata, i cui traumi giovanili lo tengono ancorato a un passato angoscioso e lo rendono preda della sua stessa aggressività, frutto di abusi fisici e verbali interiorizzati. Così viene messo a tema nello spettacolo il rapporto con un paesaggio interiore decadente, popolato da cattivi maestri e fatto di rapporti umani e familiari disfunzionali. In particolare, al cuore delle vicende del protagonista c’è il rapporto con il fratello e l’ingombrante assenza delle figure genitoriali, sostituite in questa pièce dagli zii di Nicholas, abusanti e violenti. Due motivi che risuonano con il precedente lavoro di Lopardo presentato nelle sale del Parenti nella scorsa stagione teatrale, ION. Anche in quel caso, il protagonista (Giovanni) viveva un rapporto travagliato col fratello, unico legame familiare rimastogli data l’assenza dei genitori.
Rispetto a ION ritroviamo poi anche un modo di fare regia e drammaturgia, di costruire la scena, un impianto fono-luci che denunciano una coerenza stilistica, una visione precisa e un saper fare teatro che confermano questo autore tra gli attraversamenti più interessanti del panorama milanese. Uno stile dai tratti cinematografici e che darebbe l’impressione di una pellicola, se non fosse per il voluto sfondamento della quarta parete operato da Mario Russo. Oltre a rivolgersi direttamente al pubblico, come davanti a dei testimoni, l’attore supera il proscenio fino ad arrivare in prossimità delle prime file. Per il resto, il suo lavoro fisico è davvero notevole, in scena e tra i cambi, così come lo è la sua interpretazione in dialetto crotonese, che restituisce il pathos degli episodi narrati e la verità del protagonista. Inoltre, traspare da parte di autore e attore un lavoro vero sulla lingua, che infatti non viene restituita in maniera macchiettistica o a suon di cliché, come spesso vediamo nell’uso dei dialetti sulle nostre scene; né costituisce un ostacolo alla comprensione, anzi. La lingua di Affogo è un propulsore delle atmosfere della storia e convince nella sua necessità.
Il pubblico ne risulta elettrizzato e partecipe. Trasportato in una semantica che non conosce, ma di cui intuisce gli oggetti, riconosce i rapporti, comprende gli accenti. Per tutti infatti c’è nel remoto della nostra psiche una sofferenza segreta che ha un passato, un paesaggio o un volto, come per Nicholas è quell’infanzia segnata dalla frequentazione della piscina comunale, dall’acqua, dagli zii e dal fratello. E comprendiamo il rischio che questa sofferenza diventi litania, spirale senza via d’uscita, ossessione; del dolore o della guarigione.
Nella scena finale dello spettacolo, onirica, vediamo infatti il tentativo di riconciliazione interiore: i fratelli giocano, finalmente ridono, insieme sul bordo della piscina. Per salvarsi (Nicholas) e salvare, o far rivivere, chi intuiamo (il fratello) forse non esserci più. Una scena che appare come una visione poderosa di quei versi del poeta Girolamo Comi: “La mia remota ossessione: guarire / del male e del peccato che ho sofferto / e nella morte che devo morire / splender dell’immortalità che cerco”.