Amen: così sia la vita
di Margherita Mortara
Davanti all’imprevedibilità della vita si possono assumere diversi atteggiamenti. C’è chi si spaventa, chi si indigna, chi reagisce. Tuttavia, sia che si accolgano di buon grado le sfide, sia che le si rifugga, una è la parola che, in fin dei conti, può chiudere ogni discorso, adattandosi a ogni tipo di disposizione: amen.
Ed è sotto l’insegna di questo termine che Massimo Recalcati ha posto il suo testo.
Intimo e autobiografico, Amen è basato, a detta dell’autore stesso, sulla contraddizione su cui si fonda il suo titolo: parla di vita in funzione della morte, ha come soggetto un adulto che decide di immedesimarsi nel bambino che è stato, parla di un momento di totale ripiegamento verso sé in quanto fase indispensabile per approdare a una salda apertura verso il mondo.
Per farlo non c’è bisogno di grandezza né di magniloquenza, solo di tre attori che prendono rispettivamente la parola in tre momenti e raccontano l’inizio di una vita, disegnando con questa lettura scenica un ambiente freddo, duro, aspro, un luogo dove è necessario combattere per sopravvivere.
Il testo è sorretto da una forte musicalità, orchestrata dalla regia di Valter Malosti: attraverso l’uso di voce e musica, si insinua nell’orecchio di chi ascolta un senso di affanno, di un cuore che si ostina a battere anche quando tutto attorno è morte.
Per prima parla la Madre (Federica Fracassi): strabordante di emozioni, alterna toni cupi con cui, piena di disillusione, si prepara a dire addio al bambino, ad altri più carichi di speranza, durante i quali ha il coraggio di tendere le mani verso di lui e tenerlo. La segue il Figlio (Marco Foschi), prigioniero in una scatola di vetro, l’incubatrice, dove non sente altro che il proprio cuore pulsare. Si tratta di una creatura ancora in erba, piccola, capace tuttavia di sostenere il peso di alcune grandi parole tratte da una delle lettere di Aldo Moro alla moglie: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Il terzo momento è destinato invece al Soldato (Danilo Nigrelli), un esplicito riferimento a Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Come il Figlio, anche questo terzo personaggio combatte una battaglia silenziosa e solitaria, marcia con la consapevolezza di non potersi mai fermare. Il suo discorso torna insistentemente sui termini «passo», «colpo», «cuore», «notte»: poche parole per descrivere uno stato di profonda sofferenza, ma anche di ostinazione.
Madre, Figlio, Soldato, sono tutti accomunati da un timore tutto umano, che però viene infine risolto con una semplice parola. Un «amen» può rappresentare sia l’apertura che la chiusura, la benedizione e il saluto estremo. Questo testo racchiude la potenza degli estremi e li condensa in un’unica espressione di forte affermazione: così sia.