Amleto al quadrato: se la farsa è tragedia
di Federico Demitry
La scena è costruita dietro una gabbia che separa attori e platea. Al suo interno, paglia per terra e un trono al centro, Amleto si lamenta, canta, balla, e soprattutto ride e deride il suo ruolo e quello degli altri personaggi in quella che è una riscrittura folle e provocatoria della tragedia shakespeariana. In questa pièce di e con Filippo Timi, le battute del testo originale affiorano isolate, mutilate, in ordine rigorosamente sparso, mentre il protagonista quasi soffre nel dover ripercorrere il copione del principe di Danimarca. «Arriva Ofelia, sono quattrocento anni che vuole restituirmi questi pegni d’amore», sbuffa Amleto e improvvisa improbabili acrobazie da circo e numeri canori per distrarla.
Così accade che, eliminato il problema della fedeltà e dell’adattamento dell’originale, questo spettacolo di Timi recuperi lo spirito amletico dell’essere sempre al contempo dentro e fuori dal ruolo, sospeso tra l’azione e l’autocoscienza – che è poi il motivo del successo imperituro del personaggio – per proporre uno spettacolo di puro intrattenimento comico. A coadiuvare Timi nell’impresa, Lucia Mascino (Gertrude), Marina Rocco (una improbabile Marilyn Monroe ossia il fantasma del padre), Elena Lietti (Ofelia) e Gabriele Brunelli (paggio e Laerte).
Non è però la tragedia a scivolare nella farsa, ma viceversa. L’ironia diventa presto comicità sguaiata, come Marilyn che entra in scena come fantasma del padre per palpare impunemente il “figlio”; lo sketch diventa clownerie, come le scoregge di Gertrude in trono; e la clownerie diventa habel habalim, vanità di vanità, rumore insopportabile; non un teatro, ma un teatrino. Infatti «vi sono tanti Amleti quante malinconie», scriveva Oscar Wilde nel suo celebre Il critico come artista. E così non si può non pensare che anche questo Amleto al quadrato non nasconda dietro la sua vitalità esasperata e la sua esuberanza buffonesca l’inverno del proprio malcontento (sic). Lo stesso Timi, del resto, con una padronanza di toni e stili e una potenza vocale che ricorda l’Edmund Kean di Proietti, sa con una parola o con un gesto mostrare il tragico che alberga nelle altrimenti ridicole imprese di Amleto.
Cos’è infatti il quadrato del titolo? Il moltiplicatore dell’ego del personaggio, senz’altro, ma forse anche l’immagine di un recinto, di un hortus conclusus o di una prigione che egli ha costruito per sé stesso, come la gabbia della scena.