Cirano deve morire?
di Federico Demitry
Cirano deve morire, lo spettacolo concerto di Leonardo Manzan e Rocco Placidi, liberamente ispirato al Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand, pone allo spettatore, sia esso un habitué o un parvenu del teatro, diversi interrogativi. Il primo e più cogente è sicuramente legato al titolo: cosa vuol dire che l’anti-eroe di Rostand, cui siamo affezionati, deve morire? È semplicemente un modo per rimarcare l’epilogo della storia e dunque il suo destino, o è un modo per dire che è giusto che muoia, quasi un invito ad uccidere Cirano, un monito che chiama all’azione come il celebre Carthago delenda est.
Ciascuno sarà libero di interpretarlo come ritiene in considerazione dello spettacolo, che, nella sua struttura diretta e lineare nasconde in realtà un labirinto di sottotesti, impossibili da sbrogliare sinteticamente. Il meccanismo che muove la messinscena, come in Rostand, è l’amore per Rossana, corteggiata dallo stupido ma bello Cristiano e dal brutto ma intelligente Cirano. Se però nell’originale il protagonista è un eroe maledetto, incapace di rivelare il suo amore alla donna amata, una sorta di inetto novecentesco, troppo colto, troppo autocosciente per osare nel flusso della vita, con cui siamo portati ad empatizzare, questa restituzione ha il pregio di mostrare il punto di vista di Rossana, unica vera vittima di tutta la vicenda, perché ingannata non da uno, ma da due uomini (in nome dell’amore), che finiscono per lasciarla sola. Se quindi Cristiano e Cirano, in fondo, possono godere del loro sodalizio che li avvicina pur nella rivalità, Rossana vive solo il tempo della solitudine e dell’impotenza, relegata com’è, dalla penna di Rostand, all’ombra dell’attesa, condannata ad essere motore immobile della storia, o almeno di quella ufficiale, che Carmelo Bene più tardi avrebbe chiarito essere nient’altro, per l’appunto, una storia d’uomini. Una lettura dell’opera non scontata, dunque, che porta a riconsiderare il giudizio sul protagonista del titolo, il quale narrativamente pare scivolare dalle schiere degli anti-eroi a quelle degli antagonisti, Vladimir Propp permettendo.
Le parole della sua invettiva sono ambiziosamente messe in rima dagli autori, che esplorano nella loro riscrittura i meandri della musica pop e del cantautorato – vale la pena citare due nomi evidentissimi, Caparezza e Guccini – incastrando il rancoroso poetare di Cirano tra i beat del rap. La sua personale Avvelenata, però, finisce per rivelare non solo l’arguzia, ma anche la mancanza di coraggio di un personaggio in fondo immaturo, a tratti persino puerile, con delle irrisolte tendenze narcisistiche. Non va certo meglio per Cristiano, aspirante tombeur de femme, ma questo già dall’originale. Non va meglio per Rossana: non più immobile, è vero, ma pur sempre metaforicamente incatenata alla sua condizione, per quanto ormai consapevole.
Che sia dunque in quest’ottica la risposta all’interrogativo del titolo? Che sia necessario affrontare Cirano, come viene richiesto dal personaggio stesso al pubblico in sala più volte durante lo spettacolo? Sfidarlo per ucciderlo, simbolicamente, e con lui mettere a tacere quella narrazione secolare di infiniti cadetti di Guascogna troppo avvezzi all’autocommiserazione per amare veramente?