Cleopatràs, l’erotico letale
A cura di Bianca Vittoria Cattaneo
Nel centenario della nascita del drammaturgo, il Teatro Franco Parenti continua a celebrare Testori: dal 7 al 9 Giugno è andato in scena Cleopatràs. Così come a febbraio abbiamo osservato La Maria Brasca combattere per la sua storia d’amore, ora ritroviamo un’altra protagonista, ancora una volta una donna forte, decisa e passionale. Non una figura qualsiasi ma un personaggio che, fedele al nome che porta, appare solenne e statuario, se non fosse per la bottiglia di whiskey che ne rivela fin dall’inizio la complessità. L’alcol favorisce con il suo effetto l’innesco del flusso di coscienza e funge allo stesso tempo da elemento simbolico e anticipatore. Appena la protagonista apre bocca, infatti, la sua apparenza viene tradita e la donna diventa via via sempre più succube di una sovrapposizione quasi animalesca di passioni e di impulsi. A simboleggiare e a ricordare allo spettatore la sua regalità rimangono l’elaborata acconciatura e il microfono. Uno strumento che per tutto il tempo rimane stretto saldamente nella mano dell’attrice, a metafora di uno scettro attraverso cui incantarci con il potere della parola.
La regia di Valter Malosti e le scene di Nicolas Bovey costruiscono uno spazio che da essenziale e freddo si trasforma. Cleopatra, infatti, si muove inizialmente davanti ad un tendone nero, attraverso cui poi, in un gioco di trasparenze, osserviamo uno luogo che non capiamo se sia illusorio, frutto di un gioco di luci, o se sia effettivamente presente. Solo con la rimozione dello schermo la stanza appare reale, svelando la camera da letto di cui prima intravedevamo l’immagine. Il posto in cui Cleopatra si toglierà la vita. Anche gli abiti si allineano in una progressione che va di pari passo con il cambio della scena, legandosi cromaticamente con gli arredi. A fine spettacolo, infatti, la regina compare indossando solo una sottoveste rosa, indumento che risalta le forme e gli spigoli di un corpo esile ma forte.
Sul palco è chiaramente presente una donna che ha raccontato sì delle sue conquiste e dei suoi meriti, ma si è anche lasciata andare alla passione per l’adorato «Tugnàs» e non ha potuto fare a meno di abbinare all’amore una passione anzitutto fisica e sessuale. Un desiderio che viene raccontato anche attraverso il dialetto, in una parlata che trasporta con sé l’idea di un linguaggio antico e saldamente legato alla terra e che si inserisce in un contesto di materialità erotica e frugale, permettendoci di intuire quindi che la storia che abbiamo sentito non è tanto la vita di una sovrana, quanto quella di una figura semplice i cui domini si estendono non oltre le campagne lombarde e la Valassina.
A quasi trent’anni dalla prima messinscena, la Cleopatra di Testori con il suo grammelot e la sua lingua artefatta, costruita su un intreccio tra lombardo, latino e continui riferimenti alla letteratura, risulta ancora più difficile. Al fruitore di spettacolo di oggi, forse abituato ad un linguaggio risicato e dalle risonanze anglofone, viene richiesto un passo in più, quello sforzo di concentrazione che permette poi, una volta entrati nel meccanismo della parlata testoriana, di rimanerne catturato. Quel dialetto lombardo che già negli anni Novanta si sentiva poco ma che ancora permeava il sottofondo culturale del pubblico, spesso abituato a sentirlo parlare all’interno case, ora viene a mancare sempre più e causa, inevitabilmente, la rinuncia di qualche spettatore, che decide di uscire dalla sala proprio nel mezzo dello spettacolo.
Chi invece rimane seduto, ironicamente incoraggiato anche dalla stessa attrice che ci ricorda che non vale la pena abbandonare i posti in platea, viene trascinato nel turbinio di parole, suoni e mugugni della lingua testoriana, rimanendo ipnotizzato dal carisma della protagonista. Un’Anna della Rosa davvero formidabile, che si districa in un monologo complesso, alternando momenti in cui la voce risulta modulata e cadenzata, a dare il senso della cantilena, a momenti in cui, accelerando la fuoriuscita di suoni senza trascurare una perfetta scansione delle parole, accentua la componente comica del discorso e sorride strizzando l’occhio allo spettatore nelle sezioni più divertenti. Fino ad arrivare alla tragedia finale in cui, seduta sul letto, sembra quasi intonare un canto di dolore. Invoca continuamente il nome dell’amato e altrettante volte nomina il serpente che con un morso decreterà la sua fine. Inserisce nel discorso, qui ancora più insistentemente, l’elemento fisico e sessuale, assimilando il suicidio ad un amplesso in cui l’aspide, paragonato al membro maschile, rilascia il suo veleno ingravidandola di morte. Un parallelo tra eros e thanatos che sembrerebbe classico ma che nella sua esplicita sessualizzazione e attraverso l’uso di una parola grave e carnale mai è apparso così intensamente violento e tragico.