Comico e tragico ne La leggenda del Santo Bevitore
di Lorenzo Cazzulani
La Leggenda del Santo Bevitore è uno spettacolo pensato in modo semplice e asciutto. Come lo è, d’altronde, il testo a firma di Joseph Roth su cui si misura l’opera di Andrée Ruth Shammah. L’attore protagonista è Carlo Cecchi, collaboratore di lunga data del Teatro Franco Parenti, mentre gli altri due personaggi rimangono sullo sfondo, sostenendo la performance di Cecchi quando è necessario. Uno è il barista, disattento ascoltatore del monologo tragicomico del protagonista; l’altra, invece, è una ragazza che si muove al di fuori della scena e che funge da narratrice. Si crea dunque un ulteriore piano, meta-teatrale, nel quale la lettura del testo di Roth si mescola con la rappresentazione scenica.
Lo stile dello spettacolo è dettato dall’inconfondibile mano di Andrée Shammah, sempre attenta ai dettagli e iconica nella sua semplicità. La scenografia presenta unicamente il bancone del Caffè, posto in modo leggermente obliquo, lo sgabello su cui il protagonista narra la sua vicenda, un tavolo e qualche sedia. La caratteristica particolare della messinscena, segno registico della Direttrice, sono gli schermi nascosti nelle pareti della stanza, che proiettano diverse immagini la cui funzione è quella di accompagnare il racconto di Cecchi.
La trama è incentrata sulla volontà di uscire da una tragica condizione. Sullo sfondo ci sono i debiti di denaro che il protagonista, un senzatetto con la dipendenza dall’alcol, incapace di mettere da parte qualche soldo per costruirsi un futuro migliore del suo presente, tenta costantemente di ripagare non riuscendo mai veramente nell’intento. Più profondamente, lo spettacolo è forse anche la rappresentazione di una condizione più generale: la presenza costante, tipica della vita quotidiana di ogni essere umano, di qualcosa che grava come un peso sulle nostre spalle e da cui, con fatica, tentiamo inutilmente di liberarci. La fragile presenza del protagonista impersonato da Carlo Cecchi ben rappresenta questa fatale situazione emotiva e sociale; ma in fondo essa possiede anche un tratto di comicità, caratteristica cardine di molti letterati che scrivono nella prima metà del Novecento. La tragicità del vivere, infatti, ai loro occhi, risulta sempre accompagnata da un velo di costante assurdità. Proprio la dimensione del paradossale, come ne Il mito di Sisifo di Albert Camus, schiude l’esistenza a un’ambigua forma comica: è esattamente nelle vicende irrazionali che avvolgono il nostro vissuto che l’incredibile illogicità degli eventi produce in noi un senso di deresponsabilizzazione e alle volte può anche strapparci un sorriso.