Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza
di Federico Demitry
Mario Martone dirige Il filo di mezzogiorno, adattamento drammaturgico di Ippolita di Majo dell’omonimo romanzo autobiografico di Goliarda Sapienza. L’attrice e scrittrice siciliana, per lungo tempo rimasta ai margini del canone letterario, ha recentemente goduto di discreta fama per il suo L’arte della gioia.
Il testo messo in scena da Martone, edito da La Nave di Teseo, riflette il percorso delle sedute di cura di Goliarda (qui Donatella Finocchiaro) con lo psicanalista Ignazio Majore, interpretato da Roberto De Francesco. Le scene si susseguono sempre nello stesso luogo reale, il salotto di casa della paziente, immerso in una dimensione temporale oggettiva: a mezzogiorno, quando il medico le fa visita. E tuttavia, la narrazione non è lineare, ma segue la vita interiore della protagonista, con il suo tempo puramente soggettivo, che confonde e sovrappone luoghi altri, portando alla luce persone e ambienti appartenenti al passato: il carcere, la casa dei genitori, la Sicilia, il manicomio, il mare, sua sorella, suo padre, sua madre, il marito Citto, i fascisti. Tutto affiora in maniera imprevedibile e si dipana lungo l’esile filo (sic) tracciato dal dialogo con lo psicanalista nelle sedute di mezzogiorno.
Questa doppia natura della realtà, da una parte quella esperita soggettivamente e dall’altra quella pubblica e oggettiva, è resa in scena da un allestimento che riproduce il salotto di casa duplicandolo, come in uno specchio. I personaggi attraversano entrambe le metà, ma non sempre insieme. In questo modo, lo spettatore capisce quando il dialogo è veramente tale, quando cioè prevale la dimensione relazionale, e quando invece i due non riescono a rompere la barriera della propria individualità, ma sono invece soli nel rovello della propria psiche, in uno scambio continuo di parti che confonde paziente e medico. Sfruttando le luci e il sipario, sfondando la quarta parete, ma soprattutto grazie all’ausilio di una scenografia mobile, Martone ridisegna, anzi deforma continuamente lo spazio oggettivo a favore della soggettività della mente di Goliarda, che a volte si chiude in sé stessa sprofondando nella malattia, altre invece si apre alla relazione con lo psicanalista. Tutta una metà del salotto, di conseguenza, durante la pièce cade improvvisamente in ombra, arretra, o addirittura si solleva.
Ne risulta uno spettacolo notevolmente frizzante, a tratti convulso, nonostante siano solo due i personaggi in scena. Merito anche degli attori che, agevolati dall’argomento, esibiscono un vasto ventaglio emotivo, restituendo un’interpretazione realistica ed emozionante.