Il dietro le quinte della favola-inchiesta In stato di grazia: intervista a Francesca Merli
di Chiara Narciso
Dal 7 al 17 dicembre è andato in scena In stato di grazia, ideato e diretto da Francesca Merli. Sul palco Laura Serena, Giacomo Martini e i bambini con e senza disabilità. Nell’intervista con Francesca Merli abbiamo trattato la rilevanza delle tematiche della pièce e la creazione di questa favola-inchiesta partendo dalle origini.
Come è nata l’idea di un progetto che potesse fungere da studio per una favola-inchiesta nel campo della disabilità?
Originariamente non vi era intenzione di fare uno spettacolo. Tutto è iniziato con la conduzione di un percorso formativo di teatro integrato che vedeva come protagonisti bambini con e senza disabilità. Ho lavorato insieme a Laura Serena e Lia Gallo per comprendere come far convivere le disabilità coinvolte, dall’autismo all’iperattività fino alla sindrome di Down, per citarne alcune. Si sono affiancate poi tante storie di origini diverse, di gravidanze difficili e di adozioni, di parti prematuri e della sorpresa della disabilità, per questo sono stati coinvolti anche i genitori dei bambini. Pinocchio ha rappresentato il nostro punto di partenza, ma non raccontiamo la favola. Ci è servita solo come ispirazione per esplicitare la relazione tra un figlio che non è perfetto, un burattino che non è un bambino come gli altri, e i genitori. Partendo dalla nascita, la narrazione si sviluppa come in un romanzo di formazione per esporre il percorso dei protagonisti verso il mondo.
Come avete strutturato il laboratorio in modo che potesse portare alla luce queste tematiche?
I quattro atti dello spettacolo toccano i temi che volevamo analizzare: l’origine, cioè la “costruzione” di questo bambino/burattino non perfetto; la formazione, ovvero come la scuola si attiva, raccogliendo esperienze dirette e intervistando educatori sul campo. E poi ancora la sessualità e la pubertà e, infine, il futuro incerto rispetto all’autosufficienza e all’autonomia, al lavoro, alle relazioni sociali. Il laboratorio si è distanziato inizialmente dalla struttura teatrale canonica. Poichè molti dei bambini coinvolti non interagiscono verbalmente, il mio lavoro è stato dapprima quasi giornalistico, coinvolgendo i genitori in diverse interviste che potessero condurre all’individuazione dei nuclei tematici da trattare nello spettacolo. Poi in sala con i ragazzi abbiamo cercato un linguaggio d’arte che potesse farli comunicare attraverso la musica, il movimento, o qualunque mezzo riuscisse a farli esprimere serenamente. Questo lavoro ha poi portato, attraverso l’esercizio, anche a dei progressi rispetto alle differenti disabilità. Per esempio Chiara, che non sopportava nessun tipo rumore, adesso rimane impassibile in mezzo al caos creato dai compagni e agli applausi; oppure Arthur, che invece riesce a parlare lentamente e a scandire bene ogni lettera che pronuncia. Umanamente è stato un percorso complesso e significativo in cui come artista, performer, operatore culturale hai a che fare con un capitale umano da trattare e da portare in scena con rispetto, provando a non spettacolarizzare il dolore. L’attenzione è stata ancora maggiore considerando la minore età degli attori che sono in scena.
Il teatro può farsi promotore di un’idea condivisa di inclusività rendendo presenti gli assenti?
Seppur nel nostro piccolo, credo che questo spettacolo sia un atto politico che parte dal parlare di disabilità per approfondirla, studiarla come questione sociale e interrogarsi, fino a mettere in scena otto ragazzi minorenni. Per noi ha significato portare un grande assente sul palco, perché si parla molto di inclusione ma queste persone si ritrovano ancora ai margini o inserite all’interno di processi creati ad hoc per loro, che rimangono isole felici senza reale possibilità di integrazione. Per trattare un tema, in quanto operatrice culturale, penso sia fondamentale interpellare l’altro, rendendo partecipe l’assente oltre le mura del teatro, provando ad uscire per rientrare.