Incontro con Daria Bignardi: Ogni prigione è un’isola, un piccolo e segregato specchio di mondo
di Bianca Vittoria Cattaneo
Ospite al Teatro Franco Parenti, Daria Bignardi presenta il suo nuovo libro: Ogni prigione è un’isola. Mediatore dell’incontro è Francesco Costa, assieme a lui dialogano anche l’ex direttore degli istituti penitenziari di San Vittore e Bollate Luigi Pagano e il fondatore della cooperativa sociale bee4, Pino Cantatore.
Bignardi inizia subito con il racconto della genesi del suo ultimo lavoro: l’editore le aveva affidato un compito ben preciso, scrivere qualcosa su Milano. «Ho pensato: qual è la cosa che conosco meglio di Milano? Il carcere di San Vittore», ricorda ripercorrendo i suoi stessi pensieri. Daria Bignardi “ha il 78” per la prigione milanese. Con l’espressione “avere il 78” si fa riferimento all’articolo corrispondente del codice penitenziario che disciplina l’attività di alcuni professionisti (come educatori o psicologi) a cui è consentito entrare nell’istituto e partecipare a determinate attività. È un permesso di cui Bignardi gode da molti anni e che le ha dato l’opportunità di vivere a contatto con la realtà di San Vittore a lungo. Nonostante la vicinanza fisica ed emotiva al carcere, l’autrice ammette di essersi arresa tante volte durante la stesura del volume. Più andava avanti più si rendeva conto di voler trattare con più leggerezza il tema, ma senza rinunciare alla serietà che l’argomento richiede. Un equilibrio che è riuscita a raggiungere solo in seguito a diversi anni.
Particolarmente caro a Bignardi è l’episodio della strage in seguito alla rivolta dell’8 marzo 2020 all’interno del penitenziario di Modena. Uno dei racconti che compongono il libro è infatti dedicato ad Hafedh Chouchane, il primo dei nove uomini trovati morti in seguito alla sommossa. Ogni prigione è un’isola perché tutto è più piccolo, più sentito e intenso. Allo stesso modo, intensamente, è stato percepito il pericolo in seguito alle notizie di lockdown di marzo 2020. La mancanza di internet e la continua ricerca di notizie provenienti dall’esterno rende i carcerati i maggiori esperti di televisione, dichiara Pino Cantatore, che in carcere ha trascorso diversi anni della sua vita. Dalla tv però in quel periodo provenivano solo notizie di morte e allarmismi, trasmessi da programmi che avevano creato un clima di terrore tra tutti. Chi non aveva contatto con il mondo ed era recluso in galera «si sentiva come un topo in trappola», afferma Daria Bignardi riportando le testimonianze dei reclusi. Il tutto ha inevitabilmente portato a una situazione tesissima che ha causato le morti degli uomini le cui tragiche sorti sono ricordate dall’autrice. I loro casi sono stati ufficialmente archiviati, lasciando Hafedh, la sua famiglia e le altre vittime senza una degna e legittima spiegazione dell’accaduto. «Hafed Chouchane è morto perché ha partecipato alla rivolta del carcere, ha rubato metadone all’infermeria e volontariamente lo ha assunto»: sono le dichiarazioni del Governo italiano, che chiude così la seconda inchiesta indetta per chiedere giustizia, lasciando solamente altre domande.
In molte carceri italiane quell’8 marzo la pressione è stata insostenibile. Fortunatamente non è stato così all’interno del penitenziario di Bollate, dove non ci sono state rivolte e dove, dal 2001, i detenuti sono inseriti in un ambiente che permette loro di acquisire un’istruzione e competenze lavorative. Questo grazie anche alla cooperativa bee4: un’impresa sociale che da più di dieci anni opera per offrire delle opportunità a chi è recluso, seguendolo in un percorso formativo fino alla scarcerazione. Durante il dibattito si è parlato anche della funzione della prigione. Spesso infatti si perde di vista il suo più grande obiettivo: riformare le persone, permettere loro di riscattarsi e acquisire abilità che possano essere utili per il loro futuro. La galera è vista solamente come un luogo di reclusione e pena, necessario per punire persone cattive che hanno meritato tale trattamento. È la visione consolatoria di una società che conosce la violenza e la teme, una visione in cui vengono proiettate le vane speranze di un mondo che si crede più sicuro quando i veri criminali vengono internati. Il carcere però è solamente specchio di ciò che c’è all’esterno: è un microcosmo che, in quanto tale, incrementa la violenza presente nel mondo e che spesso per mancanza di fiducia e per pregiudizi non ha le risorse per diventare un luogo di rinascita.
Si arriva dunque alla domanda: «Chi dovrebbe rimanere in carcere?». Non c’è una risposta univoca, lo dimostrano le parole sia di Cantatore che di Pagano, entrambi in difficoltà nel momento di affermare con certezza chi meriti veramente tale trattamento (escludendo casi di crimini gravi come l’omicidio). Certo, conferma l’ex-direttore, è assolutamente necessario un cambiamento amministrativo, una riforma che rivoluzioni gli spazi penitenziari. Ogni prigione è un’isola perché non ci sono diritti. Siamo in un periodo storico in cui quando si parla di prigione si deve riconoscere una situazione di emergenza umanitaria: le persone sono sempre più povere, gli spazi sono sovraffollati e spesso chi potrebbe avere l’opportunità di uscire, decide di rimanervi per la mancanza di futuro all’esterno. È necessario un cambiamento perché «spesso ai detenuti deve andare di fortuna», ricorda Pagano con un certo velo di rassegnazione. Bisogna confidare nel maresciallo illuminato, che comprenda il suo potere e che lo investa per il bene di tutti e non che, assorbito nel vortice della violenza, si lasci trascinare da essa. Non ci deve essere più un carcere che dia concessioni, ci deve essere un carcere che garantisca diritti, che costruisca opportunità e ponti per il futuro, di modo che ogni prigione non sia più un’isola.