Basta poco per cominciare a riflettere: intervista a Emanuele Aldrovandi
di Anna Farina
Abbiamo avuto modo di dialogare con Emanuele Aldrovandi, drammaturgo e regista, autore di L’estinzione della razza umana, in scena al Teatro Franco Parenti dal 6 all’11 giugno. Con noi ha condiviso i fondamenti della sua scelta del mezzo teatrale con le sue specificità, nonché il percorso che ha portato alla nascita del suo ultimo testo.
Rileggendo un articolo su di te scritto da Sara Chiappori su Repubblica sono stata colpita da questa affermazione: «Mi piace raccontare storie facili da capire e complesse da interpretare». Come pensi che ciò trovi sviluppo nella tua attività drammaturgica?
Mi viene voglia di scrivere solo su argomenti rispetto ai quali non ho una posizione chiara. Che siano temi filosofici, questioni etiche o dinamiche relazionali. Attraverso i personaggi e le storie esploro domande alle quali non sarei in grado di dare una risposta univoca. Cerco di farlo andando in profondità, il più possibile, portando alle estreme conseguenze le posizioni, i sentimenti o i desideri dei personaggi. L’arte drammatica è perfetta per questa moltiplicazione dei punti di vista, perché attraverso il dialogo e il conflitto si può essere “verticali” senza diventare apodittici. Cosa che invece è più difficile, ad esempio, nei saggi, che sono strutturalmente costruiti intorno a una “tesi”. I testi teatrali invece non hanno “tesi” e quindi generano un tipo di riflessione diverso, più dubitativo, ma allo stesso tempo potenzialmente più articolato.
Il grande rischio, però, è che la complessità porti alla complicatezza. Ecco, questa è la cosa che cerco di evitare il più possibile. Non voglio scrivere testi “complicati”, che necessitino grandi sforzi ermeneutici o immense conoscenze pregresse, per essere fruiti. Vorrei che uno spettatore qualsiasi potesse sedersi in platea e fosse in grado di seguire senza difficoltà tutto ciò che accade: una serie di momenti comprensibili che però, nel loro dipanarsi, siano progressivamente in grado di portarlo lontano, in luoghi inaspettati, e che finiscano per mettere in crisi le sue posizioni, ribaltando o “angolando” il suo punto di vista.
Per me la sfida più difficile è questa: riuscire ad affrontare la complessità attraverso una serie di momenti “semplici”. Che poi è la stessa cosa che facevano – meglio, eh, non mi sto paragonando a loro, è solo per capirci – Shakespeare o Molière. Non c’è mai un momento, nei loro testi, in cui non si “capisca” cosa sta succedendo. Però allo stesso tempo la stratificazione di significati è profondissima.
L’estinzione della razza umana è un testo che fa ridere. Se è vero che quando si ride con la pancia, l’amarezza che ne segue diventa ancora più acre, che ruolo ha l’ironia nella tua scrittura?
Credo sia fondamentale, ma allo stesso tempo involontaria, perché è il mio modo di affrontare la vita. L’ironia è presente nei miei testi non tanto per una presa di posizione ideologica quanto più per una fedeltà al mio modo di guardare il mondo. Se in futuro smetterò di essere così, probabilmente scriverò testi diversi.
Credo che, nel caso de L’estinzione della razza umana, la maggior parte delle risate corrisponda a scontri tra visioni del mondo opposte, oppure a misunderstanding tra i personaggi. Nello scrivere questo tipo di battute le metto alla prova della serietà, intendo dire che mi chiedo se funzionino anche senza fare ridere. La risposta deve essere affermativa.
Questo significa che la risata non è mai l’obiettivo primario. Il conflitto e il senso profondo di ciò che si dice devono funzionare anche se nessuno, fra il pubblico, dovesse mai ridere dall’inizio alla fine dello spettacolo. Per questo motivo non amo le battute fini a sé stesse e raramente mi diverto a guardare certi “comici”, mentre invece mi fanno ridere tantissimo, non so, Beckett o Mrozek, ma anche ad esempio Corrado Guzzanti, i cui personaggi dicono sempre cose controverse e spiazzanti. Ecco, mi piace l’ironia che contribuisce a mettere in crisi i punti di vista.
L’estinzione della razza umana è uno spettacolo che – seppur in modo metaforico – rimanda chiaramente alla pandemia da Covid-19. Come è nato? Come senti sia maturato dopo tre anni e la fine dell’emergenza sanitaria?
In realtà stavo scrivendo un altro testo, che affrontava le stesse tematiche socio-politiche e umano-relazionali, ma con personaggi che viaggiavano per l’Europa, scene frammentate ambientate in luoghi e tempi diversi, ma proprio mentre stavo scrivendo è arrivata la pandemia. Mi sono ritrovato chiuso in casa, con una bambina appena nata, catapultato improvvisamente in una serie di dinamiche, conflitti e discorsi che fino a qualche settimana prima non avrei neppure immaginato. Perciò anche quello che stavo scrivendo si è modificato. I personaggi sono rimasti più o meno gli stessi – e anche i temi trattati – ma il contesto è diventato una palazzina di Milano, con tutti bloccati all’interno delle proprie case per colpa di un virus. Ho pensato che le dinamiche pandemiche potessero fungere da acceleratore per le discussioni sui temi portati dai personaggi: il rapporto tra genitorialità e un mondo che non arriverà al 2050, e la responsabilità del singolo rispetto al destino della Terra, a cui si contrappone un certo monocentrismo, quello di chi si occupa solo di problemi privati, ignorando qualcosa di difficile da comprendere perché grande e globale. Il Covid-19 per me è stato come la vendita della tenuta ne Il giardino dei ciliegi di Cechov: un evento catalizzatore che “accelera” dinamiche sociali già in atto e spinge i personaggi alle estreme conseguenze delle loro visioni del mondo e dei loro rapporti interpersonali. Il mio obiettivo, che sia riuscito o meno non posso certo dirmelo da solo, era quello di partire da un’esperienza comune, non per farne una cronaca – e infatti ho cambiato virus, scegliendone uno “assurdo” che trasforma gli esseri umani in tacchini, proprio per rendere palese quanto non fosse quello il punto – ma per interrogarmi e interrogarci sul presente e su di noi come esseri umani.
Come è stato il passaggio da puro drammaturgo a drammaturgo e regista? Quali sono i tuoi progetti per il futuro in questo senso?
È un passaggio di cui sono molto felice. Ho iniziato prima con il cinema, dirigendo alcuni cortometraggi, e poi ho deciso di farlo anche in teatro. Negli anni precedenti avevo lavorato tanto a contatto con altri registi, soprattutto sulla messa in scena di miei testi o adattamenti, e tutte quelle esperienze sono state fondamentali.
Ora sto lavorando al mio primo lungometraggio cinematografico, a due nuovi progetti da autore/regista, Dieci modi per morire felici che ha debuttato quest’estate e Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro, che debutterà a marzo 2024.
Cerco di guardare alle storie con occhi diversi, quando scrivo e quando le metto in scena, per fare in modo che i due ruoli si arricchiscano a vicenda. Magari un giorno metterò in scena anche testi di altri, chi lo sa. In questo momento fare il regista è una delle cose che mi diverte di più.
Nel frattempo ho anche scritto un romanzo, che uscirà a fine gennaio. L’idea di spaziare fra diversi ambiti mi aiuta a non annoiarmi e a non dare mai per scontata la scelta di un linguaggio rispetto a un altro.