When the Rain Stops Falling o il dramma dell’ereditarietà: intervista a Lisa Ferlazzo Natoli
di Rebecca Diana Ricciolo
When the Rain Stops Falling traduce un’urgenza: scritto da Andrew Bovell nel 2008 e messo in scena per la prima volta nel suo allestimento italiano con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, l’ereditarietà della parola è al centro della quête e si traduce spesso con un tratto genetico fatto di silenzi, assenze e ferite.
Sono quattro le generazioni che s’incontrano e si scontrano in una narrazione che alterna magistralmente il passato al futuro, annodando ogni personaggio all’altro come in un tiro alla fune inesorabile. La loro vicinanza non è solo costituita da legami familiari obbligati, ma è una con-presenza stretta, faticosa, capace di plasmare la scena intera definendone spazi e ambienti.
L’incontro avuto con la regista Lisa Ferlazzo Natoli si è rivelato particolarmente utile e interessante per comprendere meglio le dinamiche e le riflessioni che si celano dietro questa realizzazione teatrale. La prima considerazione che emerge dalle parole della regista riguarda l’estremo potenziale attualizzante di cui quest’opera, nata più di dieci anni fa, si fa carico: spazi stretti divisi con l’altro per obbligo o per caso (che tanto rievocano i nostri ultimi due anni pandemici), questioni climatiche di fondamentale importanza oggi e la necessità del conoscere l’altro per conoscere sé stesso. Tutti questi livelli di stratificazione costituiscono un trittico composto da individuo, spazio e relazione con l’altro, la cui chiave di volta è l’utilizzo della parola. «Bovell crede fermamente che quello che lasciamo in eredità ai nostri cari, al pianeta stesso, siano le parole: ovvero capacità, desiderio e fortuna di riuscire a tradurre attraverso la nostra voce anche pochi termini che possono essere raccolti per ricominciare a raccontare storie» dice la Natoli.
Secondo la regista proprio in questo sta la verità: le parole hanno una funzione salvifica e perigliosa (per forza e asprezza) estremamente sinestetica e di assoluta rilevanza nell’intreccio in cui ci troviamo d’innanzi in scena. Elisabeth, Gabriel, Gabrielle, Joe seminano davvero oggetti e parole, in una narrazione nella quale siamo tutti coinvolti e partecipi. Non possiamo sottrarci alle colpe dei nostri padri; le portiamo appresso, consapevolmente o meno.
«Perché perdiamo l’occasione di dire le cose al momento giusto, come Gabrielle che non esplicita mai l’amore che prova per Gabriel? Perché si teme di dire troppo o dire troppo poco, perché le parole sono preziose e ci salvano ma, dall’altro canto, diventano polvere in un solo istante» aggiunge la regista. Il lògos diventa quindi un ponte invisibile ma persistente tra tutte le figure create dalla penna di Bovell.
Non senza motivo, infatti, alcune frasi significative e caratterizzanti vengono reiterate volutamente perché capaci di mettere a confronto umanità simili e dilaniate. Mentre la pioggia scorre incessante, richiamo diretto alla questione climatica e alle numerose riflessioni ambientaliste, tutto è indefinito, i tratti distintivi di ogni microcosmo non riescono a delinearsi con chiarezza. Ogni situazione umana rappresentata sulla scena ha una coltre fuliginosa di dubbi e domande che la contraddistingue, manca quindi di una sostanziale trasparenza. Deficit che viene metaforicamente espresso con l’utilizzo di uno sfondo alle spalle degli attori, che si caratterizza proprio per avere un colore piuttosto rappresentativo: bianco sporco. Una tinta non ben definita, che si vanta di non essere asettico ma, allo stesso tempo, resta incapace di scaldare veramente lo spazio abitativo in cui ci troviamo d’innanzi.
Per Lisa Ferlazzo Natoli «ogni personaggio, così come ognuno di noi, si porta in tasca, nelle ossa, un corredo di memorie che immediatamente gli altri intercettano anche quando tutto ciò che ci accompagna non risulta chiaramente visibile. Noi viviamo e dialoghiamo non solo coi vivi ma anche con i morti, con gli incontri mancati, con la nostra immagine passata e quella futura: è una conversazione perpetua, meravigliosa e perturbante. In questo divenire di scelte e possibilità lo spettatore può ritrovarsi in ciò che preferisce: è questo lo scopo del teatro, metterci di fronte alla verità e alla possibilità di scelta.»
È significativo osservare come la storia di tre famiglie poste nella condizione di confrontarsi tra loro sia quella di una sola, con gli stessi dubbi, domande e timori. I dialoghi che si incrociano in anni ed epoche differenti sono in realtà uno solo, un coro di voci che si uniscono. When the Rain Stops Falling mostra la sovrapposizione di tre generazioni che ripropongono a sé stesse dinamiche, disfunzioni e assenze comuni e condivise. Lo spazio della cucina, l’unico visibile al pubblico, si dividerà man mano in microcosmi paralleli. È perfettamente organizzato da una regia scrupolosa e assolutamente efficace: ogni singolo dettaglio intesse un legame intenso con la drammaturgia che lo ospita. Una narrazione unica nel suo genere, capace di affrontare un tema così vasto colpendo, con precisione singolare, profondità apparentemente insondabili dell’animo umano.