La felicità di Emma
di Lorenzo Cazzulani
Il palcoscenico è stato adattato in modo molto minimale: una pedana, su cui sono poggiati alcuni vecchi pneumatici da trattore, è posta al centro della scena; la struttura risulta essere il solo elemento scenografico significativo. Come parte dei pochi elementi preannunciano, l’ambientazione dello spettacolo è una tenuta di campagna, probabilmente una fattoria o una cascina, composta da un casolare (che funge da abitazione) con annesse strutture recintate all’interno delle quali pascolano galline e maiali.
Come spesso accade nella piccola ma accogliente Sala A del Teatro Franco Parenti, lo spettacolo propone un solo personaggio; i monologhi, tuttavia, nascondono un’intimità narrativa e coinvolgente sconosciuta a produzioni più ampie e dispendiose, arricchite da una folta troupe di attrici e attori. È questo il caso de La felicità di Emma: un testo asciutto, frizzante e con un ottimo ritmo d’intrattenimento, ben calibrato dal punto di vista dell’alternanza di momenti comici e momenti più drammatici. Le tematiche, infatti, toccano corde molto sensibili della nostra quotidianità: all’interno della messinscena è ben presente il tema della malattia, della perdita, della solitudine, del rapporto con il proprio genere. La protagonista Emma è una ragazza cresciuta in campagna, educata da contadini, che ha imparato a lavorare il legno e sgozzare i maiali piuttosto che frequentare salotti borghesi d’alta moda, come è possibile che accada in una benestante famiglia cittadina.
L’attrice, vestita con abiti semplici e pertinenti per il ruolo che ricopre, interpreta in modo disinvolto il poliedro di sfumature che caratterizza la personalità della protagonista. La recitazione è sempre accompagnata da una punta di comicità che ricorda alcune commedie del passato. Soprattutto nella prima parte dello spettacolo, ad esempio, il ritmo dell’opera, il tenore delle battute e il sottofondo jazz, evocavano labilmente le atmosfere semplici e spensierate dei film di Woody Allen; sebbene, ovviamente, in questo caso catapultate nella concretezza della vita di compagna, contrariamente a quanto avviene nelle trame del regista newyorkese, imbevute di quel mondo borghese e rarefatto così distante da quello di Emma, ma così vicino, invece, a quello dell’uomo che per un caso fortuito si trova, ad certo punto della storia, a vivere con lei e del quale ella si innamora.
Il tema dell’amore per quest’uomo è la chiave di volta della drammaticità dello spettacolo: il giovane uomo, afflitto da un cancro purtroppo allo stadio terminale, offrirà uno spunto di riflessione tragico ma al contempo estremamente interessante. Le ultime battute della vita di una persona costretta a convivere con una malattia così degradante ripensano in una chiave nuova, forse più emotiva e raffinata, la materialità della vita condotta da Emma fino a quel momento; il fatto di accudire una persona in uno stato così compromesso e quello di accudire maiali, animali ritenuti popolarmente sporchi e disgustosi, infatti, trova un’ambigua e paradossale somiglianza che penetra nella mente dello spettatore e lo costringe a ragionare sulla crudezza di alcuni momenti dell’esistenza umana.